I ricordi di un cronista

1978: l’anno dei tre papi

Fu l’ “annus horribilis” fra atti di terrorismo, crisi di Governo, crisi economica, l’assassinio di Aldo Moro, le dimissioni di Giovanni Leone, l’elezione di Pertini

 

 

 

di Giuseppe Prunai

 

 

Il 1978 fu il vero “annus horribilis” per un giornalista. Quello che chiamano l’anno dei tre papi, si aprì con la caduta del terzo governo Andreotti (16 gennaio). La lunga crisi di governo (solo il successivo 11 marzo fu varato il quarto governo Andreotti) fu costellata da svariati episodi di terrorismo, da scandali politici e da una crisi economica dalla quale il paese stentava ad uscire.

Il 16 marzo, quando stava per essere votata la fiducia al governo e stava per concretizzarsi il cosiddetto “compromesso storico”, fu rapito Aldo Moro (foto a sinistra). Il suo cadavere fu fatto ritrovare dai brigatisti rossi (o sedicenti tali) 55 giorni dopo, in una via di Roma, Via Caetani, a pochi passi dalle Botteghe Oscure (sede del PCI) e da Piazza del Gesù (sede della DC).

Il 15 giugno si dimise il presidente della repubblica Giovanni Leone  accusato di essere uno dei protagonisti dello Scandalo Lockeed. Era stato eletto il 24 dicembre del ’71, al ventitreesimo scrutinio con 518 voti su 1.008.

L’8 luglio alla massima carica dello stato fu chiamato Sandro Pertini (foto a destra in basso) eletto dopo 16 scrutini con 832 voti su 995.

Ricordo che nelle sale stampa e delle redazioni dei giornali tirammo un sospiro di sollievo. Sotto pressione per sei mesi, finalmente le ferie. Le redazioni, compresa quella del GR1 della RAI, dove lavoravo, si svuotarono. Ma la tregua durò poche settimane. Le condizioni di salute di papa Paolo VI si aggravarono mentre si trovava nella residenza estiva di Castelgandolfo. Nelle sue ultime apparizioni pubbliche, lo avevamo visto provato e affaticato. L’assassinio dell’amico Aldo Moro doveva avere influito molto sul morale e sul fisico del Papa. Dopo il 9 maggio (il giorno del ritrovamento del corpo di Moro) non sembrava più lo stesso. Il 6 agosto, Paolo VI morì.

Ero tornato dalle ferie con qualche giorno di anticipo pensando di dedicarmi a qualche lavoretto nella mia nuova casa nella campagna romana. Non mi avevano ancora allacciato il telefono e fui convocato dal direttore con un telegramma. Risposi con un altro telegramma: “Obbedisco! F.to Giuseppe.... Prunai”. Un messaggio che mi valse una tirata d’orecchi da parte di Sergio Zavoli, direttore del giornale.

Mi fu affidato un compito leggero: raccogliere valutazioni e dichiarazioni dei politici che, data la chiusura del parlamento per le ferie estive, erano veramente in pochi a Roma. Fatto sta, che il 26 agosto, quando venne eletto Giovanni Paolo I, al secondo giorno di conclave, riuscìi a “beccare” soltanto Giuseppe Saragat e Pietro Nenni. Saragat insistette sul fatto che sul soglio di Pietro era salito il figlio di un operaio, Nenni prese di buon auspicio il fatto che avesse scelto di chiamarsi anche Giovanni e cominciò a parlare di Papa Giovanni e della “Populorum progressio” di cui il leader socialista era stato uno dei più apprezzati commentatori.

Tra le fine di agosto e la metà di settembre le redazioni tornarono a svuotarsi. A me, che ero uno dei più giovani, toccò qualche giorno di vacanza a fine mese. Ma il riposo durò poco. La mattina del 28 settembre, ascoltavo la radio in attesa del GR1 delle 8 quando partì la  sigla dell’edizione straordinaria: era rimorto il papa, come titolò “il Manifesto”.

Altro telegramma, altro obbedisco. In redazione mi raccomandarono di non usare l’espressione “anello piscatorio” bensì “anello del pescatore”: un collega si era impaperato dicendo “anello pisciatorio” (a quale radiocronista non è accaduto un infortunio del genere!) e mi spedirono a fare la radiocronaca dei funerali di Papa Luciani, una cerimonia che mi coinvolse emotivamente della quale ricordo, come fosse ora, l’irreale, improvviso silenzio della folla radunata in Piazza Pietro, sotto una pioggia intermittente. Un silenzio appena rotto dal salmodiare dei prelati che seguivano il feretro verso la basilica. Poi il tonfo sordo della chiusura del portone di bronzo e la vista di una folla mesta che sciamava per i vicoli di Borgo. Si sentiva soltanto il rumore delle scarpe sui sampietrini mentre il cielo diveniva ancora più scuro e ricominciava a piovere. “Et tenebre factae sunt...” pensai.

E poi i servizi sui “Novendiali”, i 9 giorni di lutto della Chiesa, durante i quali, i cardinali più importanti celebrano un rito in suffragio del Papa morto e trasformano l’omelìa in un vero e proprio comizio da campagna elettorale. Omelìe che gli esperti ritengono più importanti di quanto i cardinali si dicono nelle “congregazioni”, le riunioni preparatorie di un Conclave. Il testo dell’omelìa veniva distribuito con embargo dalla sala stampa vaticana a metà pomeriggio: va letta con  molta  attenzione e pesata con il bilancino dei farmacisti. Ogni frase è una dichiarazione di principio, un monito, un programma. Riferire il tutto, riassumerlo non sempre è facile. Un aneddoto. Per prassi, l’ultimo rito dei Novendiali viene celebrato dall’arciprete della Basilica Vaticana, che è non un cardinale, ma un semplice monsignore di curia. Nell’omelia, il monsignore tracciò il profilo del nuovo Papa e in sala stampa prima ci stupimmo e poi ci sbellicammo dalle risate: quel profilo del futuro, ipotetico Papa era lo stesso dell’arciprete!

Poi la cerimonia dell’ingresso dei cardinali in Conclave, e l’attesa della fumata bianca con una équipe redazionale e tecnica sempre pronta ad aprire una radiocronaca di alcune ore come a tornare in sede dopo un intervento di pochi minuti per dire che non è accaduto niente.

Finalmente, il pomeriggio del 16 ottobre, dopo appena due giorni di conclave, abbiamo la fumata bianca. Sul tetto di un furgone Fiat Ducato, , posteggiato in piazza San Pietro,  trasformato in postazione mobile per la radiofonia mi alternai con altri colleghi nella radiocronaca. Poi, l’apertura della vetrata della loggia centrale della basilica e l’annuncio dell’elezione di Karol Woytila, Giovanni Paolo II, 263° successore di Pietro, il primo papa non italiano dal sedicesimo secolo. L’ultimo era stato l’olandese Adriano VI morto nel 1523.

Si capì subito che questo era un papa diverso dagli altri quando – per la prima volta – un pontefice appena eletto parlò alla folla. Io azzardai che, vista la sua origine, avrebbe in qualche modo potuto influire sulla hostpolitik. Il solone di turno mi disse che non avevo capito nulla ….  Il giorno dopo bighellonavo in redazione e qualcuno insinuava: aspetta che muoia nuovamente il papa per mettersi a lavorare. Poi mi arrivò una soffiata: Giovanni Paolo II usciva dal Vaticano per recarsi in visita al Policlinico Gemelli. Per la fretta non aspettai l’équipe tecnica. Presi una delle Fiat 127 riservate ai cronisti, dotate di radiotetefono (allora non c’erano i cellulari) e guidando come un pazzo nel caotico traffico romano raggiunsi l’ospedale. Il papa parlò ai malati e riuscìi a registrare parte del suo discorso (come fecero i colleghi di altri GR della RAI e di radio estere). Quando uscì, dal gruppo dei giornalisti furono letteralmente “strillate”  alcune domande mentre i microfoni volavano sopra le teste della gente. Il papa rispose non ricordo cosa. Ma all’uscita, amara sorpresa. Un tizio, spalleggiato da due poliziotti in divisa, sequestrò le bobine con le registrazioni perché, disse, che la Radio Vaticana aveva il copyright sulla voce del papa. (Ma la Radio Vaticana negò questa circostanza. Chi era il tizio? Visti i tempi, le ipotesi non tralasciarono né i servizi deviati né la Cia!)

 Discussioni a non finire, quasi un parapiglia. Anche io consegnai la bobina. Solo che nel frattempo  avevo sostituito nel “Nagra” il nastro registrato con una bobina vergine che consegnai con un mugugno al poliziotto.

Era già in onda il GR1 sera delle ore 19 quando chiesi la linea con il radiotolefono. Un breve intervento in diretta e poi feci sentire una parte del discorso del papa. Non avevo né tecnico né attrezzature particolari e dovetti accontentarmi di mettere il microfono del radiotelefono sull’altoparlante del magnetofono. Non fu un bel sonoro, ma fece effetto.

Il giorno dopo, prima udienza riservata ai giornalisti che avevano seguito il conclave. Persi diverso tempo nel cercare un parcheggio, si faceva tardi e raggiunsi di corsa l’aula delle udienze che raggiunsi affannato, con i capelli scomposti e in preda al mal di testa per la tensione nervosa e il timore di essere escluso perché in ritardo. Il gruppo della radio rai era in prima fila, subito all’ingresso. Quando il papa entrò lo chiamammo:

- Santità, siamo della Radio Italiana...

- Che Dio benedica la Radio Italiana. Mi raccomando, puntualità e imparzialità perché io ormai dipendo da voi...

Strette di mano per tutti. Io mi inchinai per baciargli l’anello ma lui mi mise una mano in testa e mi scompigliò in un modo incredibile i capelli, che allora avevo tanto più folti.

Avrei voluto dire qualcosa, ma l’emozione mi bloccò. Parlò lui sorridendo:

- Auguri, auguri....

Sentiti come una scarica elettrica e il mal di testa e l’affanno sparirono come d’incanto.

 

 

 

Il Galileo