La drammatica situazione delle carceri
CON LO SGUARDO RIVOLTO AL MURO:
UN DRAMMA ITALIANO
di Erisa Pirgu
“Giorno dopo giorno, con lo sguardo rivolto al muro. Costretti a dare le spalle
al mondo. Senza compiti e senza responsabilità. Privati di proiezioni e
finalità. Questi moderni forzati, come farfalle umane nel vuoto, non volano
verso una possibile trasformazione, ma piuttosto verso una pietrificazione delle
coscienze”. Così Massimo Ballone descrive i carcerati italiani.
Queste frasi inducono ad un’attenta riflessione. Il tema del sovraffollamento
delle carceri diviene prepotentemente ancor più attuale a seguito della recente
sentenza della Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo emessa l’8 gennaio,
che ha condannato l’Italia a pagare 100 mila euro a sette detenuti delle
prigioni di Busto Arstizio e Piacenza sottoposti a “trattamento inumano e
degradante”. La Corte ha inoltre
ingiunto allo Stato italiano di introdurre, entro un anno dal momento in cui la
sentenza della Corte sarà divenuta definitiva, "un ricorso o un insieme di
ricorsi interni idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi
di sovraffollamento carcerari in conformità ai principi stabiliti dalla
giurisprudenza della Corte". Il
sovraffollamento che coinvolge gli istituti penitenziari italiani viene definito
dai giudici “strutturale e sistemico”. Non si può non condividere tale
valutazione: il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane, secondo
l’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle
carceri, è del 142,5%, oltre 140 detenuti ogni 100 posti letto. Ovvero: il
carcere italiano è fuori legge.
Recentemente il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione di
una visita al carcere milanese di San Vittore, ha giustamente sottolineato come
vi sia in gioco “una delle condizioni essenziali dello Stato di diritto, nonché
il prestigio e l’onore dell’Italia.” Lontani dal Tullianum romano, un angusto
locale ove l’accusato era legato ai ceppi, oggi sono tutti concordi nel rilevare
la necessità del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo anche in carcere.
L’insostenibilità di tale situazione emerge, inoltre, dall’elevatissimo numero
di suicidi e tentativi di suicidio tra le mura del carcere: allarmante e
drammatico. Quando uno Stato non è in grado di garantire la dignità minima a
tutti i cittadini, quando i diritti e doveri spettano solo ad alcuni, e non ad
altri, allora lo Stato ha fallito nell’assolvimento dei suoi compiti. Le misure
contenute nella cosiddetta legge “svuota carceri”, le iniziative assunte sul
piano dell’edilizia penitenziaria e le altre iniziative con intento deflativo
non sono state sufficienti a risolvere il problema. Ma, al di là delle possibili
soluzioni contingenti che sono state proposte, il problema coinvolge un aspetto
generale e sistemico: il nodo centrale appare quello di una reale e concreta
attuazione di una norma cardine del nostro ordinamento costituzionale, l’art 27
co 2. Ai sensi di tale norma, “Le pene
non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato”. Tale disposizione, accentuando la
valorizzazione della componente rieducativa connessa all’intervento
sanzionatorio, ha segnato un mutamento di rotta nella generale concezione della
pena. La risalente giurisprudenza della
Corte Costituzionale stessa ha più volte sottolineato come la finalità
rieducativa attenga chiaramente alla fase esecutiva della pena, e quindi alle
modalità di trattamento del condannato, che devono tendere appunto alla sua
rieducazione. Appare allora necessario reimpostare i termini del problema: è
sufficiente creare nuove carceri ( circostanza comunque fortemente auspicabile),
oppure occorre interrogarsi anche sulla attuale correttezza di applicazione
della pena, nonché sulla possibilità di una efficace alternativa alla pena? In
breve, ci servono più carceri, o un nuovo (tipo di) carcere?
In quest’ottica è necessario che il
carcere diventi una vera occasione di rieducazione, un luogo in cui ai detenuti
venga concretamente data un’opportunità. Cambiare
la cultura della pena che, come disse Giovanni
Paolo II, si configura oggi come una ritorsione sociale.
Riflettendo con attenzione e senza
demagogia, chiunque di noi concorderà su un dato: preferiremmo dover convivere (
perché dobbiamo conviverci ) con un criminale che è uscito di prigione dopo anni
di torture, privazioni, che coltiva rabbia e frustrazione nel corso della sua
detenzione, o un criminale accompagnato in un percorso di reinserimento nella
società, al quale si concede l'opportunità di studiare, di lavorare onestamente,
di mantenere i rapporti con la famiglia, in modo da non essere abbandonato?
Se lo scopo che si intende perseguire è quello di abbattere drasticamente
il tasso di recidiva e contestualmente quindi anche il tasso di sovraffollamento
carcerario, appare evidente che l’unica soluzione perseguibile è quella di far
sì che l’esperienza di detenzione esplichi anche una funzione riabilitativa.
Forse è più semplice relegare
questi soggetti ai margini della società e farli “marcire in galera”,
dimenticandosi, durante il periodo di detenzione, della loro esistenza. Tuttavia
chiediamoci tutti se quando avranno scontato la loro pena e usciranno, sarà
altrettanto semplice conviverci.
E allora, forse, giorno dopo giorno,
bisognerebbe “costringerli” a volgere lo sguardo non verso il muro, ma verso il
mondo.
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