FIRENZE 1966 – ITALIA 2012:
A 46 ANNI DALL’ALLUVIONE DI FIRENZE
LA STORIA SI RIPETE?
di Magali Prunai
Siamo in Novembre e da giorni tutto il Paese è stato colpito da un’ondata di
maltempo che sembra non volerci dare tregua. Fiumi come il Tevere e l’Aniene
hanno dato sfogo alla loro furia distruttrice, allagando le campagne laziali
intorno a Roma, intasando la viabilità di super strade e arrivando alle
porte del centro della capitale. Al telegiornale per tutta la giornata del
14 Novembre vedo le immagini di “Ponte Milvio”, quel ponte a me tanto caro
perché simbolo dei miei ricordi d’infanzia e del periodo passato a Roma
proprio in quella zona della città, con gi archi intasati. Una volta lo
chiamavano “Ponte Mollo” proprio perché quando il Tevere decideva di
straripare lui era il primo a finire sotto l’acqua. Ma le immagini più
inquietanti sono quelle che arrivano dalla Toscana: negozi, ristoranti, case
completamente distrutti. Gente che, intervistata, racconta di aver dovuto
nuotare in mezzo ai mobili galleggianti per fuggire dalle proprie
abitazioni. Vigneti allagati, cantine intasate dal fango. I primi dati
dicono che i danni, nella sola regione Toscana, ammontano a circa
quattrocento milioni di euro.
Ascoltando queste notizie la mente non può che correre a un’ altra alluvione
ben nota alle cronache: quella di Firenze del 1966.
La notte fra il 3 e il 4 Novembre 1966 l’Arno, ingrossato da giorni di forti
piogge, straripò allagando l’intera città.
Sono passate da poco le 24 e a causa dell’acqua in tutta la regione si
verificano smottamenti e frane e i fiumi straripano. Le comunicazioni con il
Casentino sono interrotte e il paese di Ponte a Poppi viene sommerso dalla
furia dell’Arno: la popolazione impaurita si rifugia sui tetti. All’una la
strada statale Tosco- Romagnola e le comunicazioni fra Empoli e Firenze
vengono sospese. Intanto nel capoluogo di Regione piccoli gruppi di persone
si avvicinano ai lungarni, fra questi giornalisti, polizia, il sindaco
(Piero Bargellini), il prefetto. Tutti si domandano quanto la situazione sia
grave e non sia il caso di allertare la città intera suonando le campane. Ma
si decide di non creare allarmismi e di stare a vedere.
Ormai sono le due e il fiume si fa sentire attraverso le fogne, dalle quali
comincia ad affiorare nel centro storico della città. Nella redazione de “La
Nazione”, storico quotidiano della città, si cerca di reperire delle
notizie. Il direttore, al telefono con Carlo Maggiorelli, addetto alla
sorveglianza degli impianti idrici dell’Anconella, non può far altro che
constatare la tragicità della situazione. Nel corso della telefonata il
Maggiorelli viene travolto dall’acqua.
Durante la notte il fiume invade sempre di più la città. Alle nove del
mattino anche la piazza del Duomo è allagata. Finalmente a Roma, al
ministero degli interni, si comprende la gravità della situazione. Bisogna
organizzare dei soccorsi velocemente, mandare viveri e generi di conforto
alla popolazione e soprattutto pensare a come salvare il patrimonio
artistico, storico e culturale della città. Migliaia di volumi antichi,
custoditi nei magazzini della Biblioteca Nazionale Centrale, sono sommersi
di fango. Il Crocefisso del Cimabue conservato nella Basilica di Santa Croce
è perduto all’80%, nonostante i numerosi restauri. La Porta del Paradiso del
Battistero di Firenze fu aperta violentemente dall’acqua e nel colpo caddero
quasi tutte le piastrelle. Per non parlare, poi, dei danni provocati ai
depositi degli Uffizi.
La città distrutta, messa in ginocchio, pian piano si è risollevata.
Ricostruita attraverso l’intervento di militari ma soprattutto di giovani
volenterosi, “gli angeli del fango”, accorsi da tutta Europa per cercare di
aiutare come possibile.
Dopo un episodio tragico come l’alluvione del ’66 ci si aspetta che un paese
organizzato e pronto a ogni evenienza sappia come arginare determinate
eventualità e, soprattutto, sappia come evitarle quando la probabilità di
rischio è molto elevata. Ma invece a quarantasei anni di distanza la storia
si ripete e la Toscana, ma non solo, è sotto l’acqua e non mai come in
questa situazione trovo adatto citare un famoso pensiero di Hegel“Das
Einzige, das uns die Geschichte lehrt, ist, dass wir nicht aus der
Geschichte lernen”
(“l’unica cosa che impariamo dalla storia è che non impariamo nulla da
essa”)
A Firenze l'Arno non fu d'argento
"Il mio alluvione"
un ex alluvionato ricorda
di Giuseppe Prunai
In molti vernacoli toscani, soprattutto in quelli delle campagne, la parola
“alluvione” è un sostantivo maschile. “È venuto l'alluvione”, “si è
scatenato l'alluvione”, “è stato un alluvione catastrofico” dicono in molte
zone della Toscana. Non c'è bisogno di scomodare la psicolinguistica per
capire il perché di questa inversione: la potenza distruttrice dell'acqua
che tracima gli argini dei fiumi viene inconsciamente equiparata ad una
potenza maschia. Forse per lo stesso, inconscio meccanismo per il quale
nelle lingue sassoni il pallido sole del nord viene indicato con un
sostantivo di genere femminile (die Sonne, in tedesco) e la luna dalla
vivida luce con uno maschile (der Mond). È di questa potenza distruttrice,
di questa clava da apocalisse che fu l'alluvione che quaranta anni fa
flagellò molte zone d'Italia che vogliamo parlare.
Su Firenze pioveva dal 25 ottobre con una breve pausa il giorno 30 ed una
più lunga il primo novembre ed il giorno successivo. Pause, comunque,
inframezzate da brevi piovaschi. Ma a metà del giorno 3 novembre, le piogge
ripresero incessanti e violente. L'Arno, già alto, cominciò a crescere a
vista d'occhio.
C'è un modo di dire a Firenze per indicare che sta per accadere qualcosa di
drammatico e di inevitabile: “èccoci all'acqua!”. In molti lo ripeterono
nella notte sul 4 novembre quando le fogne, anziché inghiottire l'acqua
piovana, cominciarono a gettar fuori quella dell'Arno. Fu intorno alle 23
del 3 novembre che i vigili del fuoco di Firenze ricevettero le prime
chiamate per scantinati e piani terreni allagati. Contemporaneamente, il
fiume tracimò a monte del capoluogo.
Ricordo un episodio. Poco dopo la mezzanotte, ero in un bar di Piazza
Gavinana, vicino al Ponte San Nicolò. Era un esercizio sistemato in un
prefabbricato eretto in un'aiola proprio in mezzo alla piazza, abituale
ritrovo di giornalisti che, usciti dal giornale a notte fonda, andavano lì a
mangiarsi un panino. Con il proprietario parlavamo del fiume che cresceva e,
di tanto in tanto, attraversavamo la piazza per affacciarsi alla spalletta a
controllarne il livello. La circolazione automobilistica era praticamente
inesistente. Ad un tratto arrivò una cinquecento giardinetta coperta di
fango all'inverosimile. Ne scesero un uomo ed una donna di mezza età con i
vestiti zuppi d'acqua. Tremavamo di freddo e di paura. Erano il cuoco e la
vicecuoca di un ristorante sull'Arno di via Villamagna: stavano riordinando
la cucina, nel primo sotterraneo con i loro dipendenti quando, la finestra
del locale che si affacciava direttamente sul muraglione che fa da argine al
fiume, venne sfondata dalla pressione dell'acqua che invase la cucina. Ne
uscirono tutti a nuoto e fortuna volle che le auto si siano messe in moto
consentendo la fuga.
Fu il primo incontro con la realtà. Più tardi dovemmo abbandonare la piazza
perché cominciava ad allagare. Abitavo allora, nella zona sud della città,
verso Porta Romana. La raggiunsi percorrendo il Viale dei Colli, sulle
colline. Poi lasciai l'auto in alto, a metà del Viale di Poggio Imperiale,
sotto la collina di Arcetri, e raggiunsi casa a piedi: le precauzioni non
sono mai inutili.
La portata del fiume
Nella notte l'acqua continuò a salire invadendo la città. La maggiore
preoccupazione veniva dalla zona di Ponte Vecchio. In quel punto, la portata
massima dell'alveo è di circa 2.000 metri cubi al secondo: furono
abbondantemente superati con i rilasci delle dighe della centrale
idroelettrica di Levane che superarono i 2.100 metri cubi al secondo, ai
quali si debbono aggiungere i rilasci di altri bacini minori situati più a
monte (sul Casentino, soltanto nelle ultime ventiquattrore erano caduti
oltre 150 millimetri di pioggia) e della Sieve, affluente di destra
dell'Arno di discreta portata. “Arno non cresce se Sieve non mesce” dicono a
Firenze. In conclusione, al Ponte Vecchio, furono abbondantemente superati i
3.000 metri cubi al secondo. Non c'è da stupirsi se la città sia stata
sommersa dall'acqua che nelle parti più basse, sfiorò i 5 metri di altezza!
Le polemiche: si poteva evitare?
Dopo la tragedia, le polemiche. In primo luogo, sul mancato allarme alla
popolazione. Le autorità di difesero dicendo di aver voluto evitare il
panico e il caos automobilistico nelle strade. Ma chi fu avvertito (molti
orafi del Ponte Vecchio) riuscì a mettere in salvo gran parte dei propri
beni e a trasferirsi in zone della città (anche nei dintorni) più sicure.
Però molte persone furono sorprese dall'acqua nel sonno.
Gravissima la situazione di molte comunità: gli ospedali, soprattutto quello
psichiatrico, il ricovero delle persone anziane, il carcere delle Murate,
nel centro della città. Qui, gli agenti di custodia aprirono le celle per
consentire la fuga sui tetti, ma la famiglia del direttore rimase
intrappolata dall'acqua nell'appartamento di servizio situato in un
mezzanino. Furono sette detenuti (che successivamente furono premiati nel
corso di una solenne cerimonia) a buttarsi a nuoto nelle acque limacciose
per trarre in salvo il direttore del carcere, sua moglie e i figli. Da
segnalare, che nel carcere fiorentino fu attuato, anche se non in modo
ufficiale, uno dei primi esempi di semilibertà: i detenuti uscivano al
mattino dalle celle sfondate e dal portone divelto, andavano a lavorare nel
quartiere di Santa Croce (uno dei più colpiti) per liberare le strade dal
fango e dai detriti, per svuotare cantine e via dicendo e, a sera, si
ripresentavano alla casa di pena. Soltanto due ne approfittarono per
svignarsela: uno fu catturato di lì a poco, l'altro si ripresentò
spontaneamente dopo un paio di giorni.
L'altra, grande polemica riguardò l'assenza dello stato, la inadeguatezza
dei soccorsi, l' inesistenza di una qualsiasi forma di protezione civile.
Il 4 novembre, a Firenze, avrebbe dovuto celebrarsi la giornata della Forze
Armate e molti reparti e mezzi militari avevano raggiunto la città nei
giorni precedenti. Ma il loro impiego si dimostrò subito inefficace. I mezzi
cingolati che cercarono di contrastare la corrente dell'Arno per interventi
di soccorso, furono respinti dalla forza delle acque, i mezzi anfibi furono
rovesciati, molti apparecchi radio ricetrasmittenti andarono in tilt. Ci fu
anche il caso limite. Con un elicottero si cercò di recuperare sul tetto di
un palazzo una donna ammalata di polmonite. Fecero indossare alla poveretta
un'imbracatura, legata al cavo di un verricello. Mentre la donna veniva
fatta salire verso l'elicottero, il cavo si ruppe e la poveretta precipitò
perdendo la vita.
Solo nei giorni successivi, il capoluogo toscano fu raggiunto da alcuni
reparti di fanteria e di marina che dettero un discreto aiuto.
Gli “angeli del fango”
I danni prodotti dall'inondazione furono incalcolabili, soprattutto quelli
al patrimonio artistico. È emblematico il caso del Cristo di Cimabue: del
bel dipinto su legno ne fu recuperato meno di un terzo. All'Archivio di
Stato, alla Biblioteca nazionale centrale, negli scantinati degli Uffizi,
migliaia di volumi, di faldoni di documenti storici, di quadri non esposti
per mancanza di spazio finirono sott'acqua. A recuperarli, lavarli, separare
pagina da pagina con grossi fogli di carta assorbente, furono i cosiddetti
“angeli del fango”, i giovani venuti da ogni parte d'Italia e d'Europa (ma
ne arrivarono anche dagli Stati Uniti, dal Canada e dall'Australia) che
lavorarono ininterrottamente per almeno tre mesi, dormendo nei vagoni
ferroviari parcheggiati nelle stazioni ferroviarie periferiche di Firenze,
mangiando solo qualche panino. Unico compenso, un concerto d'organo in Santa
Croce in loro onore alla partenza ed un diploma in finta pergamena.
Bibliografia essenziale
Giuseppe Aiazzi, “Narrazioni istoriche delle più considerevoli inondazioni
dell'Arno e notizie scientifiche sul medesimo”, Ed. L'arco dei Gavi, Verona,
1967
Il Ponte, “Firenze Perché” numero speciale, Ed. La Nuova Italia, 1966
Franco Nencini, “Firenze i giorni del diluvio, Ed. Sansoni 1966
Eugenio Pucci, “Il diluvio su Firenze”, Ed. Bonechi 1966
Guido Gerosa, “L'Arno non gonfia d'acqua chiara” Ed. Mondatori 1967
Tullio Ristori, “Novembre 1966: non è successo niente” Ed. Club degli autori
1967
AA.VV, “Firenze domani”, testi di P. Bargellini, E. Mattei, G. La Pira, V.
Pratolini, G. Supino, G. Patrone, G.P. Meucci, G. Michelacci, E. Detti, A.
Guadagni, A. Bertolino, G. Devoto, C.L. Raggianti, G. Toraldo di Francia,
Ed. Vallecchi 1967
Giorgio Batini, “L'Arno in museo” Ed. Bonechi 1967
AA.VV, “Firenze nel mondo”, testi di G. La Pira, U. Thant, T. Merton,
E.Frei, S. Okacha, B.R. Sen, A.M. Schlesinger, R. Habachi, P.N. Baker, L.S.
Senghor, R. Maheu, G. D'Arboussier, E. Fortseva, S. Radhakrishan, B.
Guessous, I. Ehrembur, A. Guillabert, L. Mumford, V. Van Ai, Ed Cultura 1967
Fotocronaca di un disastro annunciato
(g.p.) Questa è una sorta di diario delle giornate del 4 e 5 novembre 1966 fatto
con una macchina fotografica non professionale, una Voigtländer Vito CLR, con
obiettivo Lanthar 2.8/50, e flash a lampade Ferrania che, bagnato dalla pioggia,
sul più bello smise di funzionare. Per caso, avevo quattro rollini sperimentali,
in bianco e nero, formato 24x36 (il cosiddetto formato Leika) da 36 scatti
ciascuno, con 40 DIN di sensibilità (vedi nota in chiusura).
Si trattava di una pellicola estremamente sensibile, studiata per foto di
interni con scarsissima illuminazione. In pratica, con questa pellicola, era
possibile ritrarre il volto di una persona illuminata soltanto dalla fiammella
di un cerino. Questi i pregi. I difetti erano la scarsa profondità del
fotogramma e la grana (anche eccessiva) quando la foto veniva fatta con una luce
normale. Si trattava, insomma, di una pellicola per interni che, una volta
lanciata sul mercato, sarebbe divenuta il cavallo di battaglia dei “paparazzi” a
caccia di immagini indiscrete nei separé dei night. Per effettuare delle foto
appena decenti, dovetti chiudere tutto il diaframma e, in alcuni casi,
utilizzare i filtri gialli, anche perché le foto scattate la mattina del 4 da
Piazzale Michelangelo sono, per forza di cose, tutte in controluce o con la luce
a tre quarti.
Oltre alla disavventura del flah, nella fase della lavorazione delle foto, ebbi
quella dei bagni di rivelazione e di fissaggio. Erano vecchi, “stanchi” dicono
in gergo i fotografi. Per rivitalizzarli dovetti scaldarli, aggiungendo grana a
grana, e poi asciugare le pellicole in alcool. Anche se tecnicamente le foto
erano imperfette, ebbero abbastanza fortuna tanto che uno dei rollini scattati
dall'alto del Piazzale Michelangelo, fu acquistato da un'agenzia di stampa
americana.
Insisto nel dire che i 144 scatti di quei giorni non hanno alcuna pretesa
artistica, ma unicamente documentaria.
4 novembre 1966, ore 11, Piazzale Michelangelo: da alcune ore l'Arno è
straripato ed ha allagato la città. La chiesa sulla sinistra è la basilica di
Santa Croce, che fu gravemente danneggiata. L'edificio di fronte, con le due
torrette, è quello della Biblioteca nazionale centrale che ebbe tutto il piano
terra e gli scantinati invasi dalle acque con gravissimi danni al patrimonio
librario. Il rione di Santa Croce si trova al di sotto del livello del fiume.
(copyright by Giuseppe Prunai)
Protagonisti di questi giorni gli impermeabili e gli ombrelli. Sullo sfondo i
ponti sull'Arno sommersi dall'acqua. (copyright by Giuseppe Prunai)
|
Il fumo nero che si vede in lontananza è provocato da un'esplosione
nella zona di Piazza Beccarla. L'acqua aveva invaso i locali di
un'officina dove erano conservati alcuni fusti di carburo (impiegato per
la saldatura ossiacetilenica). Al contatto con l'acqua, si era prodotto
un gas che poi era esploso. Mi raccontò lo storico Nicolò Rodolico, che
abitava vicinissimo al luogo dell'esplosione, che il suo appartamento
tremò come per un terremoto, alcuni vetri andarono in frantumi e qualche
crepa si aprì nell'intonaco. Per fortuna, i danni furono solo materiali.
(copyright by Giuseppe Prunai)
5novembre, mattina, Ponte
Vecchio: questo era il negozio di un orafo. (copyright by Giuseppe
Prunai) |
Orafi e orefici cercano di recuperare quanto più possibile fra le macerie dei
loro negozi e laboratori. (copyright by Giuseppe Prunai)
Il Piazzale degli Uffizi trasformato in una grande piscina. (copyright by
Giuseppe Prunai)
Un Lungarno che non c'è più
(copyright by Giuseppe Prunai)
Il “fai da te” dei commercianti fiorentini per liberare i propri negozi dal
fango e dai detriti. (copyright by Giuseppe Prunai)
Una barbona fruga nel fango, fra gli oggetti rovinati dall'acqua e
buttati via dai commercianti alla ricerca di qualcosa di utile. Siamo nel
Lungarno Guicciardini. (copyright by Giuseppe Prunai)
Nota sulla sensibilità delle pellicole
La misurazione della sensibilità delle pellicole era per lo più espressa in DIN
(Deutsche Industrie Norme). La scala indica, oltre alla loro sensibilità
generale, anche la loro rapidità, la sensibilità cromatica, la latitudine di
posa, il potere risolutivo e la grossezza della grana. La scala DIN era usata,
prevalentemente in Europa. Con l'invasione del mercato da parte dei grossi
produttori americani, la scala in DIN cedette il posto a quella in ASA (American
Standard Association). Nella prima, ad un aumento di 3 gradi corrisponde un
raddoppio della sensibilità, nella seconda ad un raddoppio del punto scala
corrisponde un raddoppio del valore. Praticamente, la prima ha un andamento
logaritmico, la seconda aritmetico. Le due scale coincidono su un valore molto
basso: 12 DIN = 12 ASA. La pellicola bianco e nero più comune per esterni aveva,
allora, un valore di 21 DIN corrispondenti, più o meno, a 100 ASA. Le pellicole
rapide a 30 DIN corrispondevano a quelle a 400 ASA, quella sperimentale a 40 DIN
aveva un valore di oltre 800 ASA. Ma le due scale stanno per andare in soffitta
con l'unificazione dei due sistemi in quello ISO (International Standard
Organization) che esprime il valore della pellicola con il rapporto ASA/DIN
(per esempio 400ASA/27DIN= 14,81 ISO. Da notare che il sistema DIN, introdotto
quando le pellicole a colori non esistevano o comunque avevano scarsa
diffusione, non tiene conto della risposta dell'emulsione alle varie lunghezza
d'onda della luce. Adesso, con l'avvento della fotografia digitale (che ha,sì,
dei limiti ma che verrà certamente perfezionata) la disputa sulle superiorità
dei sistemi DIN, ASA e ISO, rischia di diventare bizantina. Fra non molto, le
pellicole fotografiche ad emulsione andranno in soffitta. Si è già cominciato
con quelle in bianco e nero pancromatiche: non vengono più prodotte e quelle che
sono in vendita sono le scorte di magazzino lanciate sul mercato ad esaurimento.
Sarà poi la volta delle ortocromatiche da microfilm, sostituite dai procedimenti
di scansione (o scannerizzazione) dei documenti da conservare. Si prevede che
fra qualche anno scompariranno del tutto anche le pellicole a colori. Nella
seconda metà degli anni novanta, un tecnico di una grossa azienda americana
produttrice di pellicole, mi disse che le emulsioni sarebbero durate almeno
altri 50 anni. Ne sono passati appena dieci e siamo in pieno boom di fotografia
e cinematografia digitale. L'azienda in qujestione è fallita. (g.p)