La liberazione di Siena

(3 luglio 1944)

nei ricordi di un ex ragazzo

300 partigiani uccisi – Tre giovani morti per combattere un gruppo di tedeschi – Gli americani che entrano in città cantando Rosamunda

 

di Giuseppe Prunai

Più si progredisce con gli anni, più affiorano alla mente ricordi lontani, molto lontani. Chissà che un giorno, superata una certa soglia d’età, non ci balzino addosso (sì, perché i ricordi ci assaliscono quando meno te l’aspetti) ricordi di quando eravamo neonati o addirittura della nostra vita prenatale. Alcuni esperti sostengono che i ricordi prenatali siano ben sigillati in una zona remota del nostro cervello. Chissà se un giorno riusciremo ad aprire questo cassetto superblindato!

Complici alcuni servizi televisivi, alcuni post su Facebook e alcuni scritti su giornali senesi (Siena è la mia città ed anche se ne manco da 65 anni, cerco di tenermi aggiornato sulla vita cittadini), “m’assalse il sovvenir”¸ direbbe il Manzoni, del 3 luglio 1944, giorno della liberazione della mia città e dei giorni immediatamente precedenti. Ricordi che emergono alla memoria come un film girato ieri e non 77 anni fa quando di anni ne avevo solo 8.

La lapide

posta sulle mura di Piorta San Marco con la celebre  frase del generale francese

 De Monsabert che vietò di cannomneggiare la città

Premetto che mia madre e il sottoscritto eravamo rimasti soli in un appartamento di una decina di stanze, affacciato su una sorta di piazzetta formata dall’incrocio tra Via di Camollia, Via de’ Gazzani, Via Campansi dove era una grande RSA nella quale, nei giorni dell’emergenza, del “passaggio del fronte”, si diceva allora, avevamo ricoverato la mia nonna materna, paralizzata e ridotta su una sedia a rotelle dopo essere stata investita da un ciclista mentre era incinta del secondo genito. Appresi, in seguito, che il ciclista dovette fare i conti con il bastone da passeggio di mio nonno,  il cui pomo era costituito da una palla di colubrina.

Mio padre era prigioniero in un lager nazista. Ufficiale di marina di complemento, fu catturato dai tedeschi l’8 settembre 1943 e declassato da prigioniero di guerra a IMI, internato militare italiano, dopo che rifiutò, assieme ad altri 600mila appartenenti alle forze armate italiane, di aderire alle SS o alla RSI.

Nei giorni precedenti, capimmo da alcuni movimenti di truppa che i tedeschi stavano per ritirarsi. I segnali principali furono il saccheggio delle campagne, di alcuni quartieri della periferia ma anche di alcune zone della città. Poi, fecero saltare l’acquedotto del Vivo, che portava l’acqua dal Vivo d’Orcia (Monte Amiata) fino a Siena, ma ignorarono l’esistenza di un antico acquedotto secondario, quello di Fonterutoli, denominato anche Acquedotto dei Bottini. Poi  fu distrutta la centrale della Teti, la società telefonica tirrena, e gli elettrodotti. Rimanemmo così senza acqua, senza luce, senza telefono.

L’acqua dovevamo attingerla ai pozzi e alle antiche fonti della città. Per la luce, andavamo avanti con rare candele, con dei residui di petrolio trovati in cantina, con lumi a olio, ma anche con delle pile Léclanché fabbricate in casa con dei vasi di vetro nei quali erano immerse delle lastre di zinco, dei cilindri di carbone di storta, e per elettrolita acqua satura di sale da cucina in sostituzione dell’introvabile sale d’ammonio. Mio nonno era un appassionato di queste cose e in un armadio a muro erano rimaste alcune di queste pile che noi rimettemmo in funzione seguendo le sue istruzioni scritte. Con alcune di queste, collegate in serie, si riusciva ad accendere una lampadina da torcia tascabile. Non era il massimo, ma quanto bastava per non sbattere il naso sul muro.

Nei giorni che precedettero il 3 luglio, mia madre ed io andammo in giro per magazzini per accaparrarci quanta più roba possibile temendo di dover trascorrere un lungo periodo rinchiusi in casa o, peggio ancora, nel ricovero antiaereo. Si sentiva in lontananza il cannone, un rombo sempre più vicino: erano le armate francesi e americane, attestate a sud della città, che “battevano” sulle truppe tedesche in ritirata.

Nella notte sul 30 giugno, fummo svegliati dal rumore di molti camion che attraversavano la città, diretti a Nord. Erano i tedeschi in ritirata. Per tre giorni, Siena fu terra di nessuno e qualcuno ne approfittò per regolare qualche vecchio conto personale. Uno di questi regolamenti accadde proprio vicino a casa nostra ad opera di un marito tradito.

Mia madre ed io dormivamo nella stessa stanza, affacciata sulla strada. La sera spingevamo un pesante cassettone dinanzi alla porta.

L'ingresso dei francesi  (foto ANPI)

Verso le 5 del mattino del 3 luglio, mia madre fu svegliata da alcuni rumori provenienti dalla strada. A tentoni raggiunse la finestra e si mise a spiare dalle stecche della persiana. Mi venne a svegliare ed assistemmo a scene che poi avremmo visto in  numerosi film di guerra. Degli uomini con in testa un turbante (apprendemmo  poi che si trattava di marocchini) avanzavano con circospezione, mitra alla mano, affacciandosi con prudenza ad ogni angolo di strada. Stavano ispezionando la città per controllare che i tedeschi se ne fossero andati per davvero. Arrivarono fino all’estrema periferia nord della città, controllarono le caserme ormai deserte di cui presero possesso.

Tutto qui? Ci dicemmo io e mamma.

Intanto i francesi del generale De Monsabert (foto a sinistra) erano entrati in  città da Porta San Marco. Ad un sottoposto che chiese se dovesse cannoneggiare la città, De Monsabert rispose che lui  vietava di sparare oltre il 18° secolo e se qualcuno lo avesse fatto lo avrebbe  fatto fucilare. La frase è ricordata in una lapide apposta proprio sulla Porta San Marco. Il generale Joseph de Goislard de Monsabert (1887-1981) entrato in città, si recò per prima cosa in Duomo a pregare e poi al  palazzo comunale per prendere formalmente possesso della città.

De Monsabert si paragonò a Biagio di Monluc (1502-1577) (foto a destra) colui che difese la Repubblica di Siena e, una volta che la città fu espugnata, trasferì gli abitanti ancora in grado di combattere a Montalcino.

Intanto gli americani, attestati sul Colle di Malamerenda (la celebre località dove si svolse il sanguinoso scontro tra la famiglia dei Piccolomini e della dei Tolomei), entrarono in città da Porta Romana.

Ad un tratto, il silenzio della strada fu rotto da un vocìo. Avanzava un corteo: in testa i patrioti della “Monte Amiata”, poi numerosi cittadini che sventolavano le bandiere delle contrade,  una compagnia di marocchini, i militari francesi e poi gli americani. Mi preme ricordare, che in tutta la provincia di Siena combatterono 1.500 patrioti. In 300 furono uccisi.

La gente scese in strada e fece ala ai reparti che sfilavano  offrendo ai soldati quel poco che avevano.  Soprattutto vino, che è simbolo di fratellanza e di gratitudine in una terra dove l’antica tradizione agricola è ancora presente.

Fu allora che notai dei giovanotti che scendevano dal Pignattello, una zona popolare incuneata fra due strade borghesi. Quel giorno non faceva molto caldo ed uno di loro aveva una giacca di maglia (negli anni successivi si chiamò cardigan) che gli scendeva fino ai ginocchi sotto il peso di due bombe a mano, una per tasca.  Tutti avevano una pistola infilata nella cintura dei pantaloni.

Si sparse la voce che a Vicobello, alla periferia nord-est della città, uno sparuto gruppo di soldati tedeschi, resisteva ancora e sparava su chiunque si avvicinasse e cercasse di persuaderli che la guerra, per loro, era ormai finita. Occorreva stanarli e costringerli alla resa o, comunque, annientarli.

Sentii uno dei quei tre ragazzi che disse: ci si va noi.

A sera, sapemmo che erano tutti morti. Si chiamavano Piero Cristofani, Giorgio Domenichini, Umberto Grazzini.

La lapide che ricorda il sacrificio dei tre ragazzi

Gli americani, tutti ragazzoni che sembravano cow-boy, avanzarono cantando Rosamunda fra lo stupore  di noi italiani da anni ed anni abituati a squilli di tromba e inni marziali.

Rosamunda è una polka del compositore ceco Jaromir Vejvoda. Una canzone popolare conosciuta da tutti gli eserciti del mondo.  In Italia fu riproposta nel 1972, da Gabriella Ferri, e recentemente è stata cantata al Festival di Sanremo.

Quando ascolto questo motivetto allegro, mi viene la pelle d’oca perché m’assale il sovvenir.

Il Galileo