Geminga:

la stella che non c’è

Una ricerca di due astrofisici italiani su una sorgente di raggi gamma

Si scrive Geminga, si legge Gheminga, dal milanese gh’è minga” ovvero “non c’è

 

di Irene Prunai

 

Questa è la storia di due astrofisici, Giovanni Fabrizio Bignami (purtroppo morto pochi anni fa) e Patrizia Caraveo, che hanno legato la loro vita a quella della stella che non c’è.

Sembra una favola, invece è un bellissimo esempio di ricerca e perseveranza.

È il 1973 e un satellite della NASA, il SAS-2, riesce a completare l’osservazione dell’intero disco galattico. Per i profani, fidatevi, stiamo parlando di tanta roba! Immaginate la galassia come un enorme frisbee con al centro una palla. La palla al centro è quella che viene chiamata zona di esclusione, una regione che non possiamo osservare direttamente perché ricoperta di polvere. Il contorno, il resto del frisbee, è il disco galattico.

Nel corso di questa osservazione il satellite intercetta una sorgente di raggi gamma. Detta così ci si aspetta che possa spuntare fuori uno di quei robot giapponesi da un momento all’altro, ma posso assicurarvi che non siamo nel bel mezzo di un cartone animato in cui gli alieni attaccano la terra. In realtà qualcosa sta succedendo, anzi qualcosa accadeva in un tempo molto lontano. Dobbiamo ricordarci sempre che ogni volta che osserviamo il cielo e le stelle è d’obbligo il tempo passato.

I raggi cosmici (i raggi gamma sono dei raggi cosmici) sono dei messaggeri, raccontano una storia. Forse quella di un fenomeno violento, come l’esplosione di una supernova o la fusione di stelle in un buco nero. Eppure questa volta la storia non era completa, perché gli strumenti vedevano la sorgente di questi raggi ma il fenomeno non era associabile ad alcun oggetto celeste noto agli scienziati. 

Nel 1975 venne lanciato il satellite COS-B che permise di localizzare con più precisione la sorgente.

Per venti anni i due astrofisici cercarono di capire cosa fosse andando a caccia di una controparte ottica dell’oggetto. Le caratteristiche erano simili a quelle di una pulsar, una stella di neutroni, ma non del tutto identiche. Si ipotizzò anche che potesse essere un’invisibile galassia compagna della via Lattea.

Altri astrofisici si unirono alla caccia alla stella che non c’è.

Fu Bignami a cominciare a chiamarla affettuosamente Geminga (da pronunciare con la G dura) ricalcando dal dialetto milanese “Gh’è minga” ovvero “non c’è”.

Da allora in molti hanno continuato a studiarla. Finalmente si riuscì a osservarla, indagarla in profondità. Ogni volta si aggiungeva un tassello del puzzle.

Il nome rimase e fu accettato dalla comunità scientifica. 

A oggi sappiamo che è il capostipite di una nuova famiglia di stelle di neutroni chiamate Geminga-like, ne sono state individuate almeno una cinquantina della stessa specie. Sappiamo anche che ha due code arcuate lunghe milioni di kilometri frutto dell’onda d’urto generata dalla sua corsa e conosciamo anche il suo diametro, di appena una ventina di kilometri.

Ma questa danza è un po’ la morte del cigno. Geminga è il cadavere di una stella. Si è ristretta, ruota e perde energia. La sua è l’ultima fermata prima del buco nero. Ma al capolinea Geminga non arriverà mai perché la sua massa non lo permette.

Il Galileo