I 75 anni della Repubblica Italiana

La nascita dello stato repubblicano nei ricordi di un bambino di 10 anni

 

di Giuseppe Prunai

La scheda elettorale del referendum istituzionale

 

2021 – 1946 = 75: sono gli anni della Repubblica. 10 meno del sottoscritto che quando in  Italia si votò per il referendum istituzionale aveva esattamente 10 anni. Di quell’anno ricordo la campagna elettorale, condotta con grande spiegamento di mezzi, una campagna aggressiva, feroce. L’eredità della recente guerra e del dopoguerra era il clima di violenza, spesso gratuita, ed era facile che tra oppositori, repubblicani e monarchici, si passasse a vie di fatto. Ricordo che a Napoli (in Campania la monarchia ebbe quasi un milione e mezzo di voti), se una persona si azzardava a gridare “viva la repubblica” veniva preso a calci.

I muri delle città vennero tappezzati di manifesti che non lasciarono un palmo di intonaco libero. Fu in quel periodo che venne coniata l’espressione: ludi cartacei. Da un lato all’altro di una strada, enormi striscioni esortavano a votare per una delle due istituzioni. Ricordo alcuni manifesti. In uno campeggiava l’intera famiglia reale: re Umberto II, la regina Maria Josè e i figli alcuni dei quali, negli anni successivi, avrebbero fatto parlare di sé, non sempre per episodi edificanti, come quello dell’Isola di Cavallo, in Corsica, risolto con un’uscita di scena molto simile ad una fuga. Parafrasando Vittorio Emanuele II, padre della patria soprattutto per meriti demografici, si potrebbe dire: “Casa Savoia conosce la via dell’esilio, ma soprattutto quella del disonore”.

Ai manifesti che illustravano i vantaggi di un regime repubblicano, se ne contrapponevano altri che esaltavano quello monarchico.

“Meglio un Umberto II che un Palmiro I” ammoniva un manifesto alludendo ad un’improbabile elezione di Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, alla presidenza della repubblica. La risposta non tardò: “Meglio un Palmiro I che un bastardo II” alludendo ad una diffusa maldicenza secondo la quale Umberto non sarebbe stato figlio di Vittorio Emanuele III, soprannominato sciaboletta. Infatti, la sciabola della sua divisa era stata accorciata perché quella d’ordinanza era troppo lunga e sbatteva per terra. Insomma, confrontando le diverse stature di “pippetto” e di Umberto si ipotizzava un corno della regina Elena ai danni di Vittorino. Viste le ridotte… dimensioni del re, in quel periodo furono abbassati i limiti di altezza per i militari. Da aggiungere che, a corte, il re e la regina venivano  chiamati con dileggio “Curtatone e montanara” alludendo, oltre che alla statura del re, alle origini montenegrine della regina.

Il voto di Umberto di Savoia

Ignoro come la pensassero i miei genitori (non ho mai saputo per chi votassero) nei confronti di quel re che era fuggito a Brindisi con tutto il governo, dopo l’8 settembre, lasciando l’esercito e il paese allo sbando, facile preda dei tedeschi. I militari italiani, dislocati nei vari teatri del conflitto, senza ricevere precise disposizioni se non un confuso proclama di Badoglio, furono preda dei tedeschi che li deportarono nei lager e li declassarono da prigionieri di guerra a internati militari, IMI, una qualifica che impediva l’assistenza della Croce rossa internazionale. Mio padre, ufficiale di marina di complemento, aveva trascorso circa due anni in un lager. Il giorno della liberazione pesava poco più di 30 chili. Non credo abbia votato per il re fuggiasco. Anche a me bambino, digiuno di politica ma pieno di risentimenti per essere stato privato del babbo per quasi tre anni, non era molto simpatico un re che scappa. Quelli delle fiabe si comportano in modo diverso.

13 giugno 1946, il re Umberto II, soprannominato il re di maggio, mentre sale sull'aeroplano che lo condurrà da Ciampino in Portogallo

 

Il 2 giugno si votò dalle 7 del mattino alle 21 e il 3 giugno dalle 7 alle 14. Poi cominciò lo spoglio delle schede e la trasmissione dei dati al Ministero dell’Interno.  Risultati dei vari comuni arrivavano a Roma con i rudimentali mezzi di comunicazione di allora: qualche rara telescrivente ma soprattutto il telegrafo. I risultati dei vari collegi erano affidati ai punti e alle linee dell’Alfabeto Morse e al Viminale, una schiera di addetti li sommavano con le macchine calcolatrici meccaniche, quelle con la manovella, rigorosamente a destra perché quelle non erano operazioni per mancini. Il conteggio dei voti durò 9 giorni e mezzo, finalmente il 12 giugno la radio  annunciò la proclamazione della Repubblica Italiana. I monarchici gridarono al broglio elettorale, alcuni vertici delle forze armate sarebbero stati pronti al colpo di stato. Poi tutto si accomodò. Il re di maggio salì su un aereo diretto in Portogallo.  Alla lettura alla radio del  comunicato, che indicava il numero dei voti (12.718.019 per la repubblica, 10.709.432 per la monarchia) seguì uno dei pochi inni patriottici non sputtanati dal fascismo, “Il canto degli italiani” più noto come “Inno di Mameli” che poi divenne il  nostro inno nazionale.

Era fatta. Adesso posso dormire tranquillo, mi dissi. Ma fui svegliato nel cuore della notte dai vagiti di un neonato. Era la neonata repubblica? No, era nata mia sorella.

Il Galileo