Dopo l’attacco di Pearl Harbour


Il raid di Doolittle

l’azione che risollevò

il morale americano

 

di Paolo Negrelli

 

La Uss Arizona in fiamme nella rada di Pearl Harbour dopo l'attacco del 7

 dicembre 1941

Pearl Harbour, 7 dicembre 1941.

Dalle 7.55 ora locale, 350 aerei dell’aviazione di marina giapponese scatenano un attacco a sorpresa sulla più importante base navale statunitense nell’Oceano Pacifico.

Due ore di intensi combattimenti lasciano sul campo, tra distrutti e danneggiati, 8 corazzate, 340 aerei e una decina di altre unità navali. Il personale della base statunitense conterà, tra morti e feriti, 3610 perdite. Circa 100 saranno quelle tra la popolazione civile.

È una nazione sconvolta e profondamente indignata quella che, il giorno successivo, si stringe attorno alle radio. Dall’etere giungono le parole del presidente Roosevelt che, la voce ferma, pronuncia il famoso discorso sul “giorno dell’infamia” e dichiara guerra all’Impero giapponese.

 

Le perdite e il disorientamento causato dall’attacco di Pearl Harbour crearono un ampio vuoto nella presenza statunitense sullo scacchiere del Pacifico, permettendo ai giapponesi di scatenare una serie di operazioni ad ampio raggio volte a consolidare e ad estendere la loro presenza in quell’area.

Superato lo shock iniziale, l’idea di colpire il territorio metropolitano del Giappone in risposta al raid di Pearl Harbour cominciò a circolare tra i comandi americani.

Fu in quel clima che il capitano Francis Low, ufficiale della US Navy, avanzò la possibilità che, in specifiche condizioni, un bombardiere bimotore sarebbe riuscito a decollare dal ponte di una portaerei. Al tenente colonnello James “Jimmy” Doolittle dello US Army fu affidato l’incarico di sondare questa teoria.

A seguito di numerosi calcoli Doolittle (foto a sinistra), già ingegnere aeronautico e vincitore della celebre Coppa Schneider nel 1925, individuò nel bombardiere medio B 25 “Mitchell” l’aereo adatto per mettere in atto i propositi di Low. (nella foto a sinistra: il tenente colonnello James H. Doolittle, da cui il raid prende il nome)

Nelle prime settimane del 1942 prese forma un piano estremamente ardito. I bombardieri, a bordo di una portaerei, sarebbero stati portati al punto di lancio in un tratto di mare controllato dai giapponesi. Da li, una volta decollati, avrebbero raggiunto i loro obiettivi in Giappone, per poi proseguire verso la salvezza atterrando in aeroporti in Cina. L’atterraggio in territorio cinese si rese necessario in quanto numerosi test dimostrarono che gli aerei non sarebbero stati in grado di appontare in sicurezza rientrando dal raid.

L’esercito americano mise a disposizione 16 dei suoi B 25 mentre gli equipaggi, di 5 uomini ciascuno e tutti volontari, iniziarono un intenso ciclo di addestramento.

Doolittle aggancia delle medaglie giapponesi a una bomba poco prima del

 decollo

I velivoli furono alleggeriti di quanto non fosse necessario per permettere il decollo trasportando un carico bellico di circa 2000 libbre di bombe (poco più di 950 kg) più carburante aggiuntivo. L’armamento di bordo fu ridotto e il sistema di puntamento Norden, all’epoca coperto da segreto, fu sostituito da un traguardo di mira di fortuna per evitare che lo stesso potesse cadere in mano giapponese.

Una volta pronti uomini e mezzi furono trasferiti presso Alameda, in California, dove la portaerei USS Hornet aspettava il suo carico speciale. Le operazioni di imbarco furono completate il primo aprile e il giorno seguente la Hornet, sotto completo silenzio radio, prese il mare per raggiungere la scorta e fare rotta verso il suo appuntamento con la storia.

I B 25 parcheggiati sul ponte di volo della Uss Hornet

Il 18 aprile la piccola task force fu individuata da un’unità di superficie giapponese, che riuscì a dare l’allarme poco prima di venire affondata dalla reazione delle navi americane.

La Hornet si trovava a 1200 km dalle coste giapponesi, 370 km più al largo rispetto il punto di lancio prestabilito. Ma la segretezza su cui l’intera spedizione si basava era caduta.

Doolittle e il capitano Mitscher – comandante della Hornet – dopo un breve consulto presero una grave decisione. L’operazione avrebbe avuto luogo con un giorno di anticipo.

I piloti furono allertati, gli aerei preparati e i motori accesi.

Circondati da un mare increspato dalle onde, gli equipaggi si prepararono al momento della verità. I motori furono spinti al massimo, i freni tolti. Gli aerei cominciarono la loro corsa sul ponte di volo.

Uno dopo l’altro, i B 25 si staccarono dalla Hornet senza incidenti e, volando bassi per non essere individuati, fecero rotta verso le città di Tokyo, Yokohama, Kōbe, Osaka e Nagoya, che vennero raggiunte verso mezzogiorno. Gli obiettivi dei bombardieri erano installazioni militari, industriali e alcuni insediamenti civili.

Esaurito il carico di bombe, gli aerei si diressero verso le basi in Cina, tranne uno che modificò la rotta e atterrò indenne a Vladivostok, in Unione Sovietica. Qui l’equipaggio fu internato e liberato solo nel 1943, nel corso di un’operazione svolta in assoluta segretezza dai servizi sovietici e che evitò la rottura del patto di non belligeranza esistente col Giappone.

I restanti velivoli incontrarono condizioni meteorologiche che peggiorarono velocemente durante il volo sul Mar Cinese Meridionale.

Con il carburante che ormai scarseggiava, gli equipaggi decisero di paracadutarsi sul territorio cinese. Di loro, 3 morirono nel lancio, 2 furono dichiarati dispersi e 8 catturati da militari giapponesi. Doolittle e molti dei suoi “raiders” – come vennero chiamati in seguito – riuscirono comunque a mettersi in salvo.

Paragonata alla devastante campagna di bombardamenti strategici a cui fu sottoposto il Giappone dal 1944 ad opera dei B 29 Superfortress dell’USAAF, il raid di Doolittle provocò danni contenuti, anche se colpì alcune aree urbane causando numerose vittime tra i civili. I giapponesi registrarono comunque la perdita di 5 motovedette e di 4 aerei tra distrutti e danneggiati.

Il vero successo dell’incursione fu principalmente psicologico.

In decollo verso gli obiettivi in Giappone

Le forze armate americane attesero prima di dare la notizia ma, appena questa fu resa pubblica, la stampa enfatizzò al massimo la portata del successo.

La campagna mediatica che si innescò nella primavera del 1942 contribuì notevolmente a risollevare il morale della nazione, praticamente azzerato dallo sconforto causato dall’attacco di Pearl Harbour.

Dopo settimane di insuccessi, l’opinione pubblica americana cominciava ad intravedere la possibilità di volgere a proprio favore le sorti della guerra, e l’entusiasmo che ne seguì contribuì a mettere in moto la possente macchina bellica statunitense e a guidarla verso la vittoria finale.

Da parte giapponese, invece, i risultati del raid furono minimizzati e resi pubblici solo dopo la guerra.

L’azione di Doolittle contribuì a mettere a nudo la vulnerabilità del suolo nipponico di fronte ad un’azione ostile.

L’Alto Comando giapponese si rese conto che le vaste distese oceaniche non lo mettevano la nazione al riparo dalle aggressioni, tanto più se condotte da un avversario che aveva subito, poche settimane prima, un colpo quasi mortale.

 

La prima pagina di un quotidiano statunitense che riporta la notizia del raid

 

La necessità di difendere il territorio metropolitano, inoltre, creò un minimo impatto strategico, imponendo il ritiro dal fronte di alcuni caccia da impiegare nella difesa della madrepatria, limitando la capacità aerea contro gli alleati nel teatro del Pacifico.

 Il Galileo