Angosciose immagini del passato
rivisitate nel presente
Quattro nuovi compagni di scuola il cui cognome è un nome di città
Una visita al lager di Dachau dove passarono per il camino 29.438 persone, fra
cui 2.000 ecclesiastici
di Giuseppe Prunai
Scuola elementare “Giovanni Pascoli” di
Siena, alloggiata in un vecchio edificio all’interno della Fortezza Medicea,
anno scolastico 1945-46, classe IV. Il primo giorno di scuola comparvero quattro
nuovi ragazzi. Nulla di strano perché in quel periodo c’era un certo movimento
di persone: sfollati che tornavano ai luoghi d’origine, militari trasferiti o
congedati, dipendenti pubblici trasferiti da una sede all’altra o assunti ex
novo per riempire posti vacanti e figli che dovevano frequentare le scuole, Già
in III, avevamo salutato tre ragazzi la cui famiglia aveva cambiato di residenza
ed avevamo acquistato due nuovi compagni: uno di Avellino, l’altro di Napoli e,
per la prima volta in vita nostra, avevamo conosciuto un idioma diverso: il
dialetto. Ci colpì il fatto che questi
nuovi quattro compagni avessero per cognome il nome di una città.
Domanda: e voi da dove venite? Risposta: noi siamo ebrei. Altra domanda di un
candore infantile: e allora?
Allora il maestro ci raccontò delle leggi razziali.
Del divieto per i giovani ebrei di frequentare le scuole, per gli adulti
di lavorare in strutture pubbliche e presso privati e poi l’orrore della shoà
che in quegli anni si cominciava a delineare nella sua drammatica, atroce
dimensione. Con uno di questi ragazzi, Egisto, figlio di un medico, strinsi
un’amicizia che durò per lunghi anni, fin quando le occasioni di lavoro non ci
portarono in città diverse. Mi raccontò che nel periodo peggiore dei
rastrellamenti e delle deportazioni
era rimasto nascosto con i familiari ed altri ebrei nei sotterranei del Santa
Maria della Scala.
Quello che adesso è un importante complesso museale di Siena, un tempo era un
ospedale. Sorge sul fianco della collina sulla quale si erge il Duomo. Proprio
di fronte alla cattedrale, c’è questo edificio a due piani che poi scende per
sette livelli lungo la collina fino al fondo valle, al cosiddetto Fosso di Santo
Sano. Sotto il livello più basso, ci sono gli scantinati. Egisto, i suoi
familiari ed altri compagni di sventura erano rimasti per almeno due anni
nascosti nei sotterranei dell’ospedale. Molti dipendenti del Santa Maria della
Scala erano a conoscenza della presenza di molti ebrei, ma nessuno fiatò, non ci
furono delazioni. Al piano terra, quello di piazza del Duomo, dove è il
pellegrinaio affrescato dal Beccafumi,
era stato allestito un ospedale militare tedesco e c’era un viavai,
oltreché di feriti, anche di polizia militare nazista. Nessuno sospettò
niente, nessuno denunziò gli ebrei nascosti. Qualcuno fece scuola ai
ragazzi ma quando, dopo la liberazione, poterono iscriversi alle scuole
pubbliche, erano piuttosto indietro ma recuperarono facilmente.
Noi ragazzi, a cavallo fra i 9 e i 10 anni, ascoltavamo con raccapriccio la
narrazione di questi episodi e in molti di noi sorse spontaneo un moto di
repulsa verso chi era responsabile di tali orrori.
A questo ripensavo mentre, in Germania,
guidavo per la Dachauerstrasse alla ricerca del più vecchio lager
nazista. Avevo chiesto la strada a più persone ma tutti facevano finta di non
capire. Non appena pronunziavo la parola lager, il volto sorridente con cui i
tedeschi accolgono lo straniero scompariva. Alla fine mi
rivolsi al custode della ex fabbrica di aeroplani Messerschmitt,
trasformata in un museo. L’uomo era di origini italiane e mi spiegò che la gente
non vuole sentire la parola lager probabilmente perché in fondo si sente
responsabile, perché ancora non ha
fatto i conti con il proprio passato. Lo chiamano Memorial Camp il vecchio lager
di Dachau. Il custode della Messerschmitt mi indicò la strada e così vi arrivai.
Il campo di Dachau fu istituito nel 1933. In marzo furono costruite le baracche
e in maggio già vi erano rinchiusi 1200 prigionieri, tutti perseguitati politici
perché comunisti, socialisti, cattolici antinazisti e molti intellettuali ebrei.
In giugno, il campo passò alle dipendenze delle SS che fecero “passare per il
camino” un numero impressionante di prigionieri. A Dachau morirono 29.438
persone, fra cui 2.000 ecclesiastici, colpevoli soltanto non aver voluto essere
complici di un pazzo e dei suoi folli disegni.
Unico loro moto di ribellione, una cerimonia clandestina della quale gli
aguzzini SS non ebbero mai notizia. Il vescovo
di Clermont-Ferrand, Gabriel Piguet,
arrestato dalla Gestapo nel 1944 e tradotto a Dachau, ordinò sacerdote il
diacono Kars Jesner, della diocesi di Monaco di Baviera,
gravemente ammalato, ormai senza speranza.
La stola e gli altri paramenti furono approntati dai prigionieri che sottrassero
stoffe ad un magazzino e ne recuperarono altre fra le immondizie. Chi era
costretto ai lavori forzati alla Messerschmitt fabbricò l’anello e la croce. Gli
olii sacri furono recati di nascosto dal cardinale Faulhaber, di Monaco, in una
visita al campo. La cerimonia ebbe il sapore di una beffa,
una sfida alle SS ad indicare che la volontà di un uomo di consacrare la
propria vita all’unico ideale di verità che esista al mondo non può essere
soffocata nel sangue.
Monsignor Piguet, coinvolto nella resistenza cattolica al nazismo, fu
imprigionato nel settore dei sacerdoti del campo di concentramento di Dachau nel
1944. Durante la seconda guerra mondiale, Piguet permise ai bambini ebrei di
essere nascosti ai nazisti nel collegio cattolico di Santa Margherita a
Clermont-Ferrand. Fu arrestato dalla polizia tedesca nella sua cattedrale il 28
maggio 1944 accusato di aver dato aiuto a un prete ricercato dalla Gestapo.
Imprigionato per la prima volta a Clermont-Ferrand, fu deportato nel campo di
concentramento di Dachau in settembre. Piguet è
stato onorato come gentile giusto da Yad Vashem, il
memoriale israeliano dell'Olocausto.
Ho trascorso così il Giorno della Memoria, il 27 gennaio scorso, rivivendo vecchie immagini e antichi sentimenti mai sopiti. Giorno della memoria e non del ricordo, giornata istituita nel 2004 dai neofascisti, sdoganati dal Governo Berlusconi, quasi a bilanciare il 25 aprile che tentarono di abolire.
Scrive lo storico Alessandro Barbero:
“Se si racconta tutto si scopre che i partigiani jugoslavi erano così
tanto incazzati con gli italiani perché quei territori, nel 1918, erano stati
occupati dagli italiani, i quali proibivano agli slavi di parlare nella loro
lingua, i quali imponevano agli slavi di dimenticarsi di essere slavi, i quali
hanno compiuto abusi su un popolo per vari decenni.
Questo non vuol dire che chi ha ucciso delle persone in quel contesto non debba
risponderne di fronte alla propria coscienza, ma che serve raccontare tutto.
Questa è la storia, che non ha nulla a che fare con l'istituzione di un giorno
del ricordo revisionista e nazionalista, volto a bilanciare altre giornate o
commemorazioni.”