Patrizia Caraveo; “Il cielo è di tutti”, Edizioni Dedalo, 2020 (pagine 94 -
11,50 euro)
Recensione di Adriana Giannini
Quante
volte ci capita di alzare gli occhi al cielo per ammirare le stelle? Molto
poche, forse lo facciamo solo intorno al 10 agosto, quando siamo in vacanza e
andiamo in caccia di stelle cadenti, o quando cerchiamo, di solito invano, la
cometa di cui ci parlano i media. Eppure il cielo è sempre stato fonte
d’ispirazione per l’uomo: calendario per il contadino, bussola per i
viaggiatori, fonte di stupore per i poeti, di previsioni sul futuro per gli
astrologi e di innumerevoli interrogativi per gli scienziati e i filosofi. E
allora perché abbiamo smesso di alzare gli occhi al cielo? Perché semplicemente
non si può amare ciò che non si vede. E’ questa la risposta che ci dà Patrizia
Caraveo, dirigente di ricerca all’Istituto nazionale di Astrofisica, scienziata
di fama mondiale e abile comunicatrice, nella prima parte di un agile libretto
pubblicato dalle edizioni Dedalo all’interno di una neonata collana
“Le grandi voci” che ha lo scopo di far raccontare ai protagonisti della
ricerca contemporanea la loro esperienza con lo stile e i tempi di una
conferenza rivolta a un pubblico non specializzato.
E’ l’inquinamento luminoso -
evidente nella fotografia che mostra l’Italia e parte dell’Europa viste di notte
dalla Stazione Spaziale Internazionale
- il responsabile della nostra disaffezione nei confronti del cielo, ma
anche dell’incessante ricerca di sedi sempre più remote per gli osservatori
astronomici i quali possono operare efficacemente solo in un ambiente terrestre
del tutto privo di illuminazione artificiale.
Patrizia Caraveo non espone solo il problema, ma ci parla degli sforzi che le
associazioni come l’italiana Cielo buio o l’International Dark Sky Association e
le amministrazioni più consapevoli stanno facendo per porvi rimedio e anche di
quello che ognuno di noi può fare nel suo ambito per non “spegnere” le stelle e
contemporaneamente non sprecare energia. Per esempio, dal 2013 in Francia tra
l’una e le sei del mattino sono spente le luci di tutte le costruzioni non
residenziali, compresi i 20.0000 fantasmagorici led della Tour Eiffel, con
notevole vantaggi per l’economia e l’ambiente. Anche in molte regioni italiane a
partire dal Veneto, dove ad Asiago sorge l’Osservatorio astronomico più grande
d’Italia, si sono messe a punto normative che impongono per l’illuminazione
pubblica l’azzeramento dell’emissione verso l’alto con il risultato di avere,
con un investimento ammortizzabile in breve tempo grazie al risparmio di
energia, un’illuminazione più efficiente.
L’inquinamento luminoso però è solo uno degli aspetti che preoccupano tutti
coloro che sono impegnati nella ricerca astronomica. Oltre all’astronomia ottica
vi sono altre metodologie di studio per i corpi celesti e tra questi vi è la
radioastronomia che è in grado di captare anche i debolissimi segnali emessi da
lontane galassie. Questa sua capacità è anche la sua debolezza in quanto questa
branca dell’astronomia è vulnerabile all’inquinamento elettromagnetico causato
dai milioni e milioni di sorgenti di interferenze presenti nel nostro mondo
tecnologico da radio e TV ai telefoni cellulari, dai computer ai forni a
microonde.
Per i radioastronomi vi sono frequenze riservate che devono però vedersela con
un’ulteriore insidia che viene dallo spazio ed è rappresentata sia dai satelliti
per le telecomunicazioni, la telefonia e il GPS che occupano orbite basse sia da
quelli per la TV satellitare che occupano l’orbita geostazionaria. Già ce ne
sono tantissimi, ma molti di più ce ne saranno in futuro lanciati da privati che
intendono fornire internet satellitare a quei due miliardi di persone che vivono
in regioni in cui non è economicamente possibile far giungere la fibra. Un
affare da miliardi di dollari in cui si è gettato a capofitto Elon Musk con i
suoi Starlink che a febbraio di quest’anno sono arrivati ad essere già 300 ma
che potrebbero arrivare a 12.000. Ogni lancio ne mette in orbita bassa 60 alla
volta impilati in due torri che si “disfano” una volta raggiunta la quota
operativa spedendo nello spazio quelli che già vengono chiamati i vagoni di
un trenino celeste. Un trenino che ha il difetto di riflettere la luce
con i suoi pannelli solari mandando in tilt gli osservatori astronomici
disturbati dai suoi vagoncini più luminosi della stella polare.
Oltretutto, con l’avvento di altri privati come Amazon o Samsung nella stessa
golosa impresa lo spazio diventerà sempre più affollato di satelliti funzionanti
e non con crescenti rischi di collisioni e di formazione di rottami a lungo
vaganti nello spazio. Già ora la Stazione spaziale internazionale deve manovrare
attentamente per schivare oggetti che minacciano la sua struttura, ma che cosa
potrebbe succedere più avanti? E, data l’importanza dell’impresa, non dovrebbe
essere un organismo internazionale ad autorizzare questi lanci di satelliti che
gravitano su tutto il globo?
Sicuramente se ne dovrebbe riparlare a livello di legislazione internazionale.
Intanto viene da chiedersi: “ma il cielo è davvero di tutti?”.