AL TEMPO DEL COVID-19
Le peripezie di un “tamponando” al ritorno dalla Francia e di un “tamponato” per
conoscere il referto
di Magali Prunai
Tampone al drive-in
Quando stringete la mano a qualcuno vi domandate se dopo aver usato la toilette
se l’è lavata? Su un mezzo pubblico fra la vostra mano e le barre di sostegno
alle quali appendersi c’è sempre qualcosa in mezzo per non toccarle direttamente
perché sporche? Girate da sempre con in borsa salviette igieniche e gel
disinfettanti? Il vostro dermatologo vi ha spedito in farmacia a comprare un
bagnoschiuma apposito perché vi lavate troppo? Pensate di avere tutte le
malattie del mondo solo a sentirne parlare?
Se la risposta è affermativa ad almeno due di queste domande siete irrimediabilmente ipocondriaci e germofobici, come la sottoscritta. Il lungo e nefasto periodo che passerà alla storia come quello del Lockdown per la pandemia da Covid19, per chi ha certe fissazioni, è stata la rivincita su tutti coloro che ironizzavano sull’eccessiva battaglia contro microbi, virus, germi e batteri che porto avanti da sempre. Finalmente ho potuto dimostrare al mondo che quel barattolino di gel disinfettante che porto in borsa non è ridicolo, ma utilissimo. Ho potuto imporre di disinfettare la spesa, i sacchetti della spesa, tutto quello che veniva toccato nel tragitto porta di casa-lavandino del bagno, prima e fondamentale tappa al rientro a casa per lavarsi le mani bene. Bene come un chirurgo che si sta preparando a un intervento di 12 ore. La mia collezione di mascherine, usa e getta, lavabili, in stoffa, farebbe impallidire un qualsiasi fornitore di materiale sanitario. Non mi dilungherò nel raccontarvi tutte le precauzioni, forse esagerate, forse al limite dell’assurdo, che ho imposto in casa mia dalla fine di febbraio ai primi di giugno. Forse sono stata eccessiva, ma fatto sta che siamo arrivati indenni alla riapertura fra Regioni e con l’estero.
Arriva l’estate, la gente viaggia, si sposta, va in vacanza ed ecco che i
contagi sono riaumentati. Fra chi nega l’esistenza della malattia e chi sembra
essersi dimenticato cosa abbiamo passato nei mesi scorsi, il livello di
attenzione generale è diminuito notevolmente.
Io, con la mia famiglia, decido di aspettare settembre per andare in vacanza,
pensando di trovare meno persone e poter stare tutti più tranquilli. Ma, come si
suol dire, abbiamo fatto i conti senza l’oste. Come quasi ogni anno, la nostra
meta marittima preferita si trova nel sud della Francia, in una regione che,
durante la nostra permanenza, è stata dichiarata zona rossa. Mascherina
obbligatoria nei luoghi chiusi e, dopo pochi giorni dal nostro arrivo, anche
all’aperto. Vietati assembramenti con più di 10 persone sulla spiaggia o in
strada, ma vietate anche le manifestazioni pubbliche con più di 1000 persone.
Disposizioni soft, prese giorno per giorno e poco recepite dalla popolazione,
che ben spiegano come mai in settembre la Francia sia già nel pieno della tanto
preventivata e temuta fase 2 del virus con più di 10 mila casi al giorno.
I risultati della Francia non preoccupano solo noi vacanzieri italiani, ma anche
il nostro governo che impone il tampone a chiunque rientri da Parigi o da una di
quelle regioni dichiarate zona rossa. Il provvedimento, pubblicato in Gazzetta
Ufficiale il 21 settembre, entra in vigore a partire dal 22 settembre, data in
cui terminavano le mie vacanze.
Il 21 stesso mi metto in movimento per prenotare il tampone, ma il sito
dell’azienda sanitaria regionale non era ancora aggiornato, rimasto fermo ai
rientri da Croazia, Grecia, Malta e Spagna. Il giorno seguente, ormai a metà
strada, già entrata in Italia, senza che nessuno mi abbia fermato quanto meno
per darmi informazioni, riesco a prenotare il tampone per me, i miei genitori,
mia sorella e mio nipote di 15 mesi.
Il 23 di settembre siamo già in coda per il tampone drive-in. Compiliamo il
modulo con i nostri dati, comunicando il rientro da un paese a rischio e
aspettiamo. Abbiamo circa 10 auto davanti.
Fare il tampone è stata, penso, una delle esperienze più traumatiche della mia
vita. Un lungo, lunghissimo cotton fioc che ti entra nel naso, all’improvviso e
va avanti finché non trova un ostacolo. Quando mi è arrivato in gola ho
spintonato via la sventurata cui è toccato farmelo, mi sono ritrovata con un
bastoncino che mi usciva dal naso e, solo a quel punto, mi sono resa conto che
potevo ancora respirare, degluttire e parlare. L’addetta al tampone ha spinto
ancora un po’, dicendomi di stare ferma, facendolo ruotare per benino finché non
lo ha estratto, leggermente intriso di sangue, per poi spostarlo nella seconda
narice. Se qualcuno vi dice che non si sente nulla, non è fastidioso, è solo una
passeggiata non credetegli. È molto soggettivo, dipende dal vostro livello di
tolleranza al dolore, il mio è decisamente scarso, e da chi lo fa.
Il modulo di acettazione
Che succede dopo il tampone? Si entra in quarantena fino all’esito dell’esame e
si passa la giornata, per lo meno nel mio caso, con una forte irritazione a naso
e gola e sentendosi e sviluppando tutti i sintomi del Covid19, della peste,
della malaria e di un altro paio di malattie rare.
Dal giorno seguente, poi, si vive incollati al proprio fascicolo sanitario
elettronico (FSE) finché non compare l’esito. Il 23 il primo familiare ha
l’esito, negativo. Il 24 tutti gli altri hanno l’esito, negativo. Ovviamente
l’unico dato che manca è quello dell’ipocondriaca che alterna fasi di positività
(se sono tutti negativi è difficile che io sia l’unica asintomatica) a momenti
di terrore in cui già vedo l’ambulanza sotto casa pronta a portarmi in un
qualche luogo ameno per passare la quarantena.
E alla fine, bardata come se dovessi entrare in una camera sterile perché,
comunque, non si sa mai, passati cinque giorni da quando ho effettuato la
“tortura” del tampone, dopo aver chiamato l’ospedale per avere informazioni ed
essermi sentita dire che siamo in tanti a fare questa analisi, i ritardi sono
normali, mi reco al ritiro referti per poter avere l’esito cartaceo.
Nella sala d’attesa dell’ospedale sudo freddo, ho mal di stomaco, non ho
digerito la colazione, mi sento la testa pesante che inizia a girare, sono a un
passo dallo svenimento finché, dopo 30 minuti di attesa, è il mio turno. Mi
spiegano di nuovo che siamo in tanti a richiedere questa analisi e quindi i
ritardi sono inevitabili, mi stampano il referto e torno a casa felice e
contenta perché ho quel famigerato pezzo di carta che, oltre a comprovare che ho
rispettato la legge sottoponendomi al test, afferma con inoppugnabile certezza
la mia negatività al virus.
A distanza di una settimana il mio fascicolo sanitario elettronico è andato in
tilt, rendendomi impossibile l’accesso. Del resto siamo in tanti, ci sono dei
ritardi.