quella che definisce “servitù volontaria”
Sembra fosse il 1550 anno più anno meno (la data non è certa) quando un giovane
membro del Parlamento di
Bordeaux
scrisse un testo di poche pagine ma di grande spessore sotto il profilo del
contenuto: “Discorso sulla servitù volontaria”.
Il suo nome era Ėtienne de La Boetie; Sarlat, nel Périgord, la sua città natale.
Ėtienne aveva solo ventitré anni quando, terminati gli studi di Diritto
all’Università di Orléans, entrò in parlamento. Fu lì che conobbe Michel de
Montaigne chiamato poco dopo a rivestire la medesima carica di consigliere. Fra
i due nacque un’amicizia profonda, destinata a durare tutta la vita e celebrata
da Montaigne nei suoi “Saggi”, concepiti in buona parte come commento alle
riflessioni dell’amico.
Siamo nella Francia lacerata dalle guerre di religione fra cattolici e
protestanti, destinate a culminare nella violenta repressione di questi ultimi.
In un simile contesto il giovane de La Boétie, cattolico di stampo erasmiano e
convinto fautore di una politica di tolleranza religiosa, fu incaricato da
Caterina de’ Medici, reggente del trono di Francia al posto del figlio Carlo IX,
di condurre una missione di pacificazione ad Agen.
Dalle pagine di questo testo, pubblicato postumo nel 1576 con il titolo
“Contr’un”, si leva una critica spietata alla tirannia ovvero al potere
concentrato nelle mani di uno solo che trova espressione immediata nella
monarchia. Tuttavia, come si affretta a sottolineare lo stesso autore, non è
nelle sue intenzioni lasciarsi andare ad una dissertazione che metta a confronto
la monarchia con le altre forme di governo, non fosse altro perché con
riferimento ad essa non si può nemmeno parlare di un governo della cosa pubblica
“in quanto è ben difficile credere che vi sia qualcosa di pubblico in quel
governo in cui tutto è nelle mani di uno solo”.
Il discorso, quindi, è solo rimandato perché l’esigenza che preme è un’altra. La
riflessione di Ėtienne de La Boétie, infatti, va ben oltre e si concentra
sull’analisi di ciò che genera ed alimenta una simile forma di potere che
costituisce la totale negazione dell’uguaglianza e della libertà degli uomini.
Nel perseguire questo intento, viene privilegiato, in particolare, un approccio
sociologico rispetto ad uno di carattere prettamente politico poiché sotto la
lente di ingrandimento è posta la condizione umana ed il modo in cui gli uomini
percepiscono il potere e si confrontano con esso, soprattutto con chi lo
incarna. Emergono in tal modo, i sottili meccanismi (anche psicologici) che sono
alla base della relazione malsana fra chi governa detenendo il potere in modo
assoluto e chi da questi è governato e si trova in uno stato di totale
sottomissione; una relazione che, secondo il giovane politico di Sarlat, è la
conseguenza stessa di un modo innaturale che hanno gli uomini di rapportarsi tra
loro ma anche di percepirsi singolarmente.
Partendo da questa prospettiva, de La Boétie ci conduce ad un’indagine
appassionata e di straordinaria attualità che approda ad una conclusione
anticipata dal titolo fortemente evocativo: la tirannia viene legittimata
proprio da chi è destinato a subirla nel momento stesso in cui rinuncia alla
propria libertà consegnando la sua stessa esistenza al tiranno e rendendosi così
servo volontario. In buona sostanza, il potere dell’Uno trova fondamento nel
consenso incondizionato e supino del popolo che, pur potendo scegliere se essere
servo o libero, pigramente abdica ai propri diritti naturali scegliendo di
essere totalmente sottomesso al tiranno e al suo potere arbitrario che toglie
ogni spazio alla libertà individuale.
Da qui la foga con cui Ėtienne si rivolge direttamente alla moltitudine
sonnolenta e impigrita che “abbandona la libertà e si sottomette al giogo”:
“Colui che vi domina così tanto ha solo due occhi, due mani, un corpo, non ha
niente di diverso da quanto ha il più piccolo uomo del grande e infinito numero
delle vostre città eccetto il vantaggio che voi gli fornite per distruggervi. Da
dove prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia, se voi non glieli forniste? Come
farebbe ad avere tante mani per colpirvi, se non le prendesse da voi? I piedi
con cui calpesta le vostre città, donde gli verrebbero se non fossero i vostri?
Ha forse un potere su di voi che non sia il vostro? Come oserebbe attaccarvi se
voi stessi non foste d’accordo? Che male potrebbe mai farvi, se voi non faceste
da palo al ladrone che vi saccheggia, se non foste complici dell’assassino che
vi uccide e traditori di voi stessi?. […] “Nutrite i vostri figli perché nella
migliore delle ipotesi li mandi a combattere le sue guerre, li spedisca al
macello, li faccia strumenti della sua avidità ed esecutori delle sue vendette”.
La posta in gioco, dunque, è altissima: c’è il diritto insopprimibile della
libertà e con esso il diritto all’autodeterminazione che rendono effettivo il
valore della dignità umana quale ulteriore corollario dell’uguaglianza fra gli
individui considerati come tali.
Eppure basterebbe poco per liberarsi dal tiranno, non occorrerebbe neanche
combatterlo e distruggerlo: semplicemente sarebbe sufficiente non obbedire più:
“Potete liberarvi senza neanche provare a farlo, ma solo provando a volerlo” -
esorta de La Boétie - Siate risoluti a non servire più, ed eccovi liberi”.
Basterebbe questo per riconquistare i propri diritti naturali e vedere il
tiranno “come un grande colosso cui sia stata sottratta la base, cadere d’un
pezzo e rompersi”.
Ne consegue che il dissenso, quale forma di resistenza pacifica è più potente
delle armi e per questa via, secondo Ėtienne, “si può tornare ad essere da
bestia a uomo”.
Ogni individuo, a prescindere dalla sua posizione sociale, ha dunque una grande
responsabilità quale arbitro potenziale della propria vita e, se solo lo
volesse, possibile promotore oltre che della sua libertà, anche di un nuovo
modello di società, antitetico a quello fondato sulla conflittualità e la
sopraffazione.
L’indignazione che muove de La Boétie contro la “testarda volontà di servire, va
di pari passo con la convinzione che se gli individui riconoscessero i propri
diritti di natura, non solo la tirannia non troverebbe solide fondamenta su cui
erigersi ma gli stessi rapporti fra gli uomini sarebbero ricondotti in un alveo
naturale che sarebbe espressione concreta della loro originaria eguaglianza.
Infatti, “non è da mettere in dubbio che noi siamo tutti naturalmente liberi
poiché siamo tutti uguali, e a nessuno può saltare in mente che la natura, che
ci ha fatti tutti uguali, abbia reso qualcuno servo”. Ėtienne è ancora più
esplicito a riguardo: “Senza dubbio vi è qualcosa di chiaro ed evidente nella
natura, qualcosa che nessuno può dire di non vedere, è il fatto che essa,
strumento di Dio e governante degli uomini ci ha fatti tutti di una medesima
forma, e come sembra, col medesimo calco, affinché noi ci si riconosca
scambievolmente tutti come compagni o meglio fratelli. E se, nella distribuzione
dei suoi doni, ha avvantaggiato nel corpo o nello spirito gli uni piuttosto che
gli altri, tuttavia non ha inteso metterci in questo mondo come in un campo di
battaglia”.[…] “Bisogna invece pensare che distribuendo ad alcuni di più ad
altri di meno, essa volesse dare spazio all’affetto fraterno e mettere gli
uomini in grado di praticarlo, avendo gli uni capacità di offrire aiuto, gli
altri bisogno di riceverne. Inoltre questa buona madre ha dato a tutti noi la
terra come dimora, ci ha ospitati tutti nella medesima casa, ci ha tutti
impastati con la medesima pasta affinché ciascuno potesse vedersi e quasi
riconoscersi nel suo prossimo”.
L’alternativa alla tirannia, pertanto, è una società solidale e giusta in cui le
inevitabili diseguaglianze sul piano concreto non siano strumento di dominio e
di prevaricazione reciproca bensì occasione di redistribuzione della ricchezza e
condivisione delle risorse nell’ottica del raggiungimento della pace sociale.
Ma come è possibile che l’uomo cada in una “tale profonda dimenticanza della
libertà”? Ėtienne individua nell’abitudine la prima causa della servitù
volontaria perché se è vero che “la natura dell’uomo è quella di essere libero e
di volerlo essere, fa altrettanto parte della sua natura prendere la piega che
gli dà l’educazione”. Quindi, la prima ragione per cui gli uomini servono
volontariamente è che “nascono servi e vengono educati come tali”. L’abitudine
ha il potere di annullare anche l’inclinazione naturale più favorevole per
l’uomo se questa non viene coltivata; nello stesso tempo fiacca e intorpidisce
le coscienze. I tiranni ne sono talmente consapevoli che, per rendere gli uomini
ancora più deboli e così consolidare con maggiore facilità il loro potere,
ricorrono all’astuzia di abbrutire i propri sudditi in modo da mantenerli il più
possibile in uno stato di ignoranza.
Ė, questo, un copione seguito fin dall’antichità e de La Boétie attinge
direttamente ai suoi studi umanistici per spiegare alla perfezione tali
strategie manipolatorie: “Teatri, giochi, commedie, spettacoli, gladiatori,
bestie feroci, medaglie, consimili droghe, erano per i popoli antichi l’esca
della servitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannide:
questo sistema, questa pratica, questi allettamenti erano gli strumenti con cui
gli antichi tiranni addormentavano i loro sudditi sotto il giogo. In tal modo i
popoli instupiditi, invaghiti da tali passatempi, divertiti da un vago piacere
che abbagliava la loro vista, s’abituavano a servire pedissequamente, ancor
peggio di come i bambini imparano a leggere guardando le immagini luccicanti dei
libri miniati”. Non meno efficace è sempre stata la compravendita del consenso
attraverso illusori atti di magnanimità: “Nell’antichità i tiranni romani -
ricorda de La Boétie - elargivano una misura di grano, una di vino e qualche
sesterzo; e faceva pena udire allora la gente gridare “Viva il re”. Quei
tangheri non si rendevano conto che stavano solo recuperando una parte dei loro
averi, e che il tiranno non gli avrebbe potuto restituirgli un bel niente, se
prima non gliel’avesse estorto”. Senza tralasciare la circostanza che spesso gli
stessi imperatori romani assumevano il titolo di Tribuno del popolo allo scopo
di ottenerne la fiducia ed infondergli la convinzione che fosse perseguito il
suo bene “come se esso dovesse valutare il loro nome piuttosto che i suoi
effetti. Non si comportano meglio oggigiorno coloro che non compiono alcun
misfatto, per quanto grave, senza farlo precedere da qualche bel discorso sul
bene comune e l’utilità pubblica”.
I tiranni sono spesso ricorsi ad un’altra tecnica finalizzata a tenere in pugno
la moltitudine: quella di presentarsi in pubblico il meno possibile in modo da
suscitare nel popolo l’idea della loro appartenenza ad una sorta di dimensione
sovrumana oppure semplicemente con il farsi “scudo della religione” a difesa
delle proprie malvagità.
A tal proposito, Ėtienne sottolinea amaramente come “le cose finora menzionate
per abituare la gente a servire più volentieri, i tiranni le utilizzano solo col
popolo più minuto e volgare”. Ed anche questo, viene da dire, è un copione che
ha una sua lunga storia. Egli, insomma, smaschera con straordinaria abilità e
attraverso un’analisi che precorre i tempi, i meccanismi con cui il tiranno
manipola i sudditi più umili sfruttando a proprio vantaggio lo stato di bisogno
in cui si trovano e l’ignoranza in cui sono lasciati.
Eppure, c’è un’altra forma di “servitù volontaria” maggiormente pericolosa
perché è quella che tiene più saldamente in vita la tirannia e, secondo de La
Boétie, ne costituisce addirittura il vero fondamento: si tratta di un tipo di
sottomissione subdola e di livello socialmente superiore, se così si può dire.
Essa si annida in primo luogo fra i cortigiani ovvero in una cerchia molto
ristretta di persone vicine al tiranno, laddove l’atteggiamento di sottomissione
è mosso dall’interesse personale e dal calcolo. Sono questi i veri baluardi del
tiranno, le sue sentinelle silenziose che possono più delle armi: “Non sono gli
squadroni a cavallo, non sono le schiere dei fanti, non sono le armi che
difendono il tiranno: non lo si crederà subito, ma senza dubbio è così. Sono
sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno; quattro o cinque che gli
tengono in schiavitù tutto il paese; sono i “ruffiani delle sue dissolutezze e
soci delle sue ruberie”. Ma quei sei hanno poi sotto di loro seicento
approfittatori che si comportano con loro così come essi stessi fanno col
tiranno. Quei seicento ne hanno sotto di loro seimila cui fanno fare carriera,
ai quali fanno avere il governo delle province o il controllo del denaro Dopo
costoro, ne viene una lunga schiera e chi vorrà divertirsi a sbrogliare questa
rete vedrà che non sono seimila, ma centomila, ma milioni che grazie a questa
corda sono attaccati al tiranno”. Da qui l’inevitabile constatazione che “grazie
a favori o vantaggi, a guadagni o imbrogli che si realizzano con i tiranni, alla
fin fine quelli a cui la tirannide sembra vantaggiosa quasi equivalgono a quelli
che preferirebbero la libertà”.
La lunga corda descritta da Ėtienne, alla quale in tantissimi rimangono
ostinatamente attaccati per bieco interesse, non rappresenta altro che la
ramificazione del potere tirannico o meglio il modo in cui esso si dispiega su
più livelli gerarchici all’interno dei quali replica sé stesso riproponendo
all’infinito il modello del dominio del più forte sul più debole. Ancora una
volta l’elemento decisivo è il consenso che in tal caso è frutto di un preciso
calcolo e induce una grande quantità di persone a rinunciare alla propria
libertà per aderire ad un sistema di favori e di privilegi assicurato dal
potere.
Ma in realtà, la tirannia non regala niente a nessuno se non in apparenza; anzi,
toglie sempre.
La servitù di “questa gente che striscia” è miserevole e sicuramente peggiore di
quella che lega al sovrano la moltitudine più umile e meno attrezzata poiché,
afferma Ėtienne, “quelli che coi loro intrighi mendicano il favore del tiranno
gli sono sempre sotto gli occhi: non basta che facciano come egli dice, ma
devono pensare come lui vuole e spesso per soddisfarlo precedere addirittura i
suoi pensieri”. […] “Quale condizione è più miserabile del vivere così, senza
aver niente e ricevendo da altri benessere, libertà, corpo e vita? Ma vogliono
servire per ammassar ricchezze, come se, essi che non possono dire di possedere
neanche se stessi, potessero acquisire qualcosa che sia veramente loro, e come
se sotto un tiranno fosse possibile avere qualcosa di proprio”.
La tirannide altera i rapporti fra gli uomini favorendo la conflittualità ed i
soprusi in nome di interessi particolari e per questa via distrugge il seme
dell’amicizia dal quale dovrebbe germogliare un nuovo modello di società. “il
tiranno non è amato e non ama”. L’amicizia è un nome sacro, una cosa santa che
non si mantiene con i benefici ma con la buona vita; esiste solo tra gli uomini
dabbene e nasce solo da una reciproca stima”. […] Non può esservi amicizia dove
c’è crudeltà, dove c’è mancanza di lealtà, dove c’è ingiustizia. […] “I tiranni
non si amano scambievolmente ma hanno ciascuno paura dell’altro: non sono già
amici ma complici”.
Memorabili sono le parole con cui de La Boétie descrive la “miserevole vita” dei
ruffiani di corte in preda ad un perenne stato di alienazione da sé stessi che
quasi li stordisce e vittime di una costante tensione psicologica: "Che
tormento, che martirio è questo mio Dio. Darsi da fare giorno e notte per
piacere a qualcuno, e nondimeno temerlo più d’ogni altro al mondo, esser sempre
tutt’occhi e tutt’orecchi per osservare da dove verrà il colpo, scoprire le
imboscate, legger nel cuore dei compagni, denunciare chi tradisce, essere
affabili con tutti e tuttavia sospettare di ciascuno, sempre col sorriso sulle
labbra e il gelo nel cuore, non riuscire ad esser felice e non osare esser
triste”. Tutto ciò per ritrovarsi anche a fare da scudo al tiranno diventando
bersaglio diretto del malcontento popolare.
Nonostante siano trascorsi più di cinquecento anni, il messaggio appassionato di
Ėtienne de La Boétie trascende la contingenza del momento storico in cui fu
lanciato mostrando una straordinaria attualità che lo rende universale; la
storia, del resto, lo ha ciclicamente dimostrato e ancora continua a farlo. In
particolare, esso si presta ad estendersi oltre i confini dell’ambito politico
in senso stretto e ad acquisire nuovo vigore quale spunto di riflessione sulla
società contemporanea dominata dal ruolo sempre più pervasivo e condizionante
dei mass media e caratterizzata dall’affermarsi, in misura sempre maggiore, dei
social network come modello predominante di interazione fra le persone; senza
contare le insidie rappresentate dal diffondersi delle “fake news” che
richiedono costantemente la capacità di distinguere ciò che è vero da ciò che è
falso o addirittura artificiosamente creato per orientare i comportamenti
individuali e creare insicurezza (impresa non facile soprattutto in momenti di
crisi e di disorientamento). Si moltiplicano, insomma, le sollecitazioni che,
attraverso mezzi diversi ma tutti di grande impatto ed influenza sulla vita
delle persone, possono dare vita a potenziali “tiranni” della personalità di
ciascuno, abili nell’omologare le idee e sopire le coscienze; talmente
accoglienti e tranquillizzanti che il pericolo sempre presente è quello di
staccarsi troppo da sé stessi quasi senza accorgersene, allettati da qualcosa
che non ci chiede di riflettere su questioni spesso scomode ma importanti.
Insomma, l’eco delle parole che questo ventenne lungimirante e di grandi ideali
ci ha lasciato cinque secoli fa si presta ad essere ascoltato anche rispetto
alle nuove sfide dei tempi moderni.
Etienne morì nel 1563 a soli 33 anni, assistito dall’amico di una vita. Ad
ucciderlo fu una terribile epidemia di peste.
Accanto ad un evento che si rinnova tragicamente nella storia dell’umanità, la
potenza di un messaggio che attraversa le epoche e supera il tempo: la condanna
di ogni forma di potere che calpesta la libertà individuale e il principio di
uguaglianza fra gli uomini; l’affermazione del diritto ad autodeterminarsi
liberamente e del valore della dignità.