LA VITA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
FRA FASE UNO E FASE DUE
di Magali Prunai
Come si va a scuola con il Coronavirus in circolazione? Semplice, non ci si va.
È la scuola che va a casa degli studenti e non gli studenti a recarsi
fisicamente nelle aule. Semplice, no?
No, non è poi così semplice. Docenti di ogni ordine e grado e di ogni età hanno
dovuto imparare, in pochi giorni, a usare uno strumento d’insegnamento
completamente diverso dal solito: il computer. Studenti e professori, muniti di
webcam e buone connessioni a internet, continuano a incontrarsi virtualmente in
questa scuola alternativa e d’emergenza. Si spiega, si interroga, si tampona
come si può il tempo perso e che, inevitabilmente, si perderà. Si chiacchiera,
come si è sempre fatto quando si era tutti insieme nella classe fisica. Ed è
così che un’insegnate di una scuola media di Bergamo ha raccontato come, durante
un momento di svago, i ragazzi abbiano iniziato a raccontare di un nonno, di una
madre o di un padre, portati via da un’ambulanza o a letto con la febbre, la
tosse e senza che nessuno possa avvicinarsi a quella stanza. È cronaca recente
quella che ci ha raccontato di un ragazzo che ha spento il video ma lasciato
acceso il microfono così che la sua insegnante potesse rendersi conto delle
violenze familiari che si perpetravano in quella famiglia. Un disperato e muto
grido di aiuto che, fortunatamente, non è rimasto inascoltato. Il carico
emotivo, per tutti, è ad elevata intensità e anche ora, a una settimana
dall’avvio della tanto sospirata fase due, tornare a una vita normale, come
prima, non è poi così semplice.
Finalmente la libertà, si è detto; il 4 maggio come un secondo capodanno 2020.
No, non è così. Le restrizioni sono ancora tante, la voglia di trasgredire è
immensa e nei primissimi giorni fra polemiche, proteste e assembramenti non
autorizzati, si è imparato e compreso in cosa consiste questo nuovo periodo di
transizione da un proteggersi dal virus a una convivenza con esso.
Si è detto molto che la pandemia ci stava cambiando, chi in meglio e chi in
peggio. È vero, siamo cambiati. Per lo meno finché siamo stati confinati in casa
abbiamo imparato, chi più chi meno, a razionalizzare e organizzare al meglio il
tempo che sembrava quasi infinito. Siamo passati dal non avere mai il tempo di
fare qualcosa ad averne pure troppo e di non sapere come trascorrerlo.
E proprio questa lentezza, il tempo che trascorre e noi con le mani in mano, le
giornate scandite da numerose attività che prima facevamo di corsa o che
segnavamo nella lista degli impegni futuri, per un giorno quando non dovremo
correre come criceti nella ruota, che dovrebbe farci riflettere sulle nostre
vite prima, durante e dopo il Covid19.
Molti hanno accusato le istituzioni di avergli privati dei loro diritti di base,
come la libertà di movimento. La mattina accusavano il governo di essere un
dittatore che rinchiude la gente in casa, il pomeriggio seguivano una sessione
yoga on-line e la sera analizzavano i dati della Protezione Civile su malati,
ricoverati in terapia intensiva e morti accusando che non venissero mai prese le
giuste decisioni e i giusti provvedimenti.
Mi domando, allora, quali erano le giuste misure da attuare? E mi domando
ancora, davvero un regime totalitario, una dittatura mascherata da democrazia ci
permette di scrivere su un qualsiasi blog, sito web, socialnetwork, che siamo
costretti contro la nostra stessa volontà sul divano di casa?
La mente torna alle dittature forse più conosciute, quelle sudamericane con i
contestatori drogati e ancora non del tutto lucidi lanciati in mare con braccia
e gambe legate, quelle nazi-fasciste che a colpi di manganello e sorsi di olio
di ricino ti ricordavano quale era il giusto pensiero.
L’attuale pandemia è stata anche paragonata a una vera e propria situazione
bellica. Subito si pensa a quella che consideriamo la guerra più recente, che
conosciamo meglio anche perché ci ha toccati di più, la seconda guerra mondiale,
o tutte quelle guerre e guerriglie che da allora non hanno mai smesso di
affliggere il mondo intero.
Eppure non sono i numeri dei morti, quelle persone che ogni giorno riduciamo a
un mero numeretto senza pensare, con profondo cinismo ed egoismo, che stiamo
parlando di gente che fino a poco prima parlava, rideva, viveva con tutta una
famiglia che non è potuta stargli accanto nel momento più tragico, e non sono
neanche le restrizioni che sopportiamo e abbiamo sopportato stoicamente a farci
pensare a una vera e propria guerra. Non siamo sotto continui bombardamenti e
quando usciamo per fare la fila al supermercato non viviamo con la costante
paura di tornare a casa malati, infetti, cadaveri che camminano e involontari
untori. In tempo di guerra, quando si esce con la tessera per il pane e una
moneta che oggi vale 1 e domani -1, non abbiamo la certezza di non saltare su
una bomba, di non assistere a un rastrellamento, a una fucilazione sommaria, di
essere deportati senza un motivo. Nessuno ci nega il cibo, la pizza a domicilio
o addirittura il gelato o la brioche col cappuccino. Alimenti di lusso e
impensabili in una Italia dilaniata dalle bombe nel ’44 o, per non andare troppo
lontani nel tempo, in una Siria dei giorni nostri. Parliamo di riaprire il prima
possibile centri estetici e parrucchiari, dove stare a un metro di disstanza è
davvero difficile. Nei giorni prima della liberazione di una città, quando si
viveva tutti insieme nei rifugi, quanti pensavano alla messa in piega o alla
manicure? Non c’erano le pagine internet dove ordinare ogni bene di questo
mondo, portato da corrieri molto probabilmente sfruttati e dotati di un minimo
inconsistente di protezioni. Dobbiamo stare a casa, ancora, possiamo fare poche
uscite ed essere ancora più prudenti di prima. Non dimentichiamoci, però, che un
conto è non uscire o limitare le proprie sortite all’aperto per impedire a un
virus di continuare a passeggiare da un corpo all’altro e un conto è un
coprifuoco, come quello adottato dalla Francia durante la fase uno, con orari in
cui era previsto uscire, fare determinate attività e orari in cui non era
proprio permesso mettere il naso fuori dalla porta. In Francia, infatti, a
partire dalle 8.00 non era possibile, fino al 10 maggio, uscire a correre e alle
22.00, alle 20.00 in Costa Azzurra, era d’obbligo stare confinati nelle proprie
abitazioni. In Italia siamo passati da una popolazione che una mattina si è
svegliata tutta “runner” a una popolazione piena di affetti stabili/congiunti,
con la necessità impellente di incontrare cugini di sesto grado che fino a due
giorni fa neanche si sapeva di avere.
La scuola non è stata fatta in ricoveri antiaerei, non si scappa dalle aule ogni
volta che una sirena annuncia l’imminente pericolo, nessuno è in trincea a
sparare contro un altro essere umano che gli è stato detto essere suo nemico.
La scuola, ciononostante, si affronta con difficoltà in questa situazione. La
affrontano con difficoltà le 4 figlie dell’operaio egiziano rimasto disoccupato
che vive in 27 metri quadri nella periferia milanese, intervistato al
telegiornale, che devono arrangiarsi chi in bagno, chi sul tavolo da pranzo per
fare i compiti e seguire le lezioni grazie a dei tablet forniti da associazioni
di volontariato. La affronta male chi aveva appena iniziato la prima elementare,
che a settembre dovrà recuperare un anno intero e, intanto, andare avanti col
programma per non rimanere indietro. La affronta male chi quest’anno farà
l’esame di maturità, privato di tutti quei bei momenti che ti fanno sempre
ripensare con nostalgia agli anni della scuola. E come sempre il divario da chi
ha una famiglia economicamente più stabile da quella con più difficoltà aumenta.
Chi può permettersi computer, tablet, telefoni cellulari più sofisticati meglio
seguirà le lezioni, meglio approfondirà e lavorerà. Ma c’è chi non ha neanche
una connessione a internet.
Ma quello che forse può farci veramente pensare a una guerra sono le condizioni
di umana precarietà. Condizioni mentali che, finito il secondo conflitto
mondiale, hanno lasciato il posto alla rinascita, alla ricostruzione e al
cambiamento. A differenza di quanto accadde alla fine della prima guerra
mondiale. Chi si affacciava alla vita alla fine della guerra trovava un modo per
rinascere e ripartire. Ma chi era stato in guerra, che aveva combatturo, era
stato prigioniero, chi fino al giorno prima di essere spedito al fronte aveva
vissuto nell’ozio più totale, come ci racconta Roth ne “La cripta dei
cappuccini”, si trasformò in un corpo vuoto, morto al suo interno, che camminava
per un mondo che non riconosceva più. Troppo legati al vecchio per capire il
nuovo, troppo giovani ancora per
lasciare il posto a chi verrà dopo.
E iniziata la nuova fase, dopo le prime e comprensibili euforie, chi ha
rivoluzionato la sua vita per il Covid19 non sempre si sente pronto a ripartire.
Si parla, sempre più spesso, della paura di uscire di casa e di cambiare tutto
di nuovo. Di stravolgere quella lenta, noiosa e ripetitiva routine che forse a
molti piace di più di quella vita frenetica, passata a correre dietro non si sa
cosa, a una chimera, a l’illusione di una vita migliore senza renderci conto che
ogni giorno era sempre più precario e instabile. Questa è la vera guerra che
ognuno di noi sta vivendo in questo particolare periodo storico: la stabilità
della noia contro la frenesia dell’incertezza.
Un giorno, non troppo lontano da oggi, saremo un capitolo dei libri di storia.
Si scriveranno saggi, approfondimenti e verremo studiati. E tutto ciò sarà
possibile, come è sempre stato possibile alla fine di un periodo nefasto, perché
prima o poi la quiete torna sempre.