Mascherine e guanti:
una pesante eredità per l’ambiente
Occorre realizzare dei punti di raccolta per evitare che queste protezioni siano
fonti di inquinamento
di Adriana Giannini
Siamo giustamente bombardati di appelli per continuare a utilizzare mascherine e
guanti in tutte le occasioni che ci mettono in contatto anche se distanziato con
estranei o con ambienti a rischio, ma non si insiste abbastanza sulla necessità
di liberarsene in maniera responsabile. Girano sul web tantissime foto che
mostrano questi DPI (dispositivi di protezione individuale) abbandonati negli
spiazzi dei supermercati, ai margini delle strade, nei parchi, sulle spiagge o
vicino ai bidoni dei rifiuti.
Chi posta queste foto è giustamente indignato sia per il pericolo sanitario che
questi rifiuti rappresentano - si sa che il Covid 19 sopravvive sulla plastica e
su altri substrati molte ore se non giorni - sia per il rischio che possano
finire nei corsi d’acqua e quindi in mare aumentando enormemente la quantità di
plastica che già affligge gli oceani del nostro pianeta. Ma naturalmente
l’indignazione del singolo non basta. Ecco perché molti enti ed istituzioni che
hanno a cuore la salute dell’ambiente che, come anche i recenti avvenimenti
hanno dimostrato, è strettamente legata alla nostra stanno lanciando forti
appelli perché vengano presi urgenti provvedimenti.
Uno tra i primi a lanciare l’allarme è stato il WWF Italia che si è basato su
uno studio del Politecnico di Torino secondo cui, visto che ancora a lungo
dovremo convivere con questa situazione emergenziale, al nostro paese
servirebbero un miliardo di mascherine e mezzo miliardo di guanti (entrambi
monouso e non biodegradabili) al mese. Anche se solo l’uno per cento di questo
enorme quantitativo finisse in mare la situazione del Mediterraneo che già ogni
anno riceve 570.000 tonnellate di plastica si aggraverebbe enormemente. Ecco
perché la presidente del WWF Italia Donatella Bianchi fa appello agli organi
competenti perché predispongano opportuni contenitori presso porti e spiagge, ma
anche nelle vie cittadine, nei parchi e negli spiazzi dei supermercati.
Il problema ovviamente riguarda anche
il buon senso e l’educazione del cittadino e quindi ritengo sia urgente e
opportuno che, oltre ai pressanti inviti a continuare a utilizzare questi mezzi
di protezione, anche i media insistessero sui rischi connessi al loro abbandono
nell’ambiente.
Ma c’è anche un problema più vasto che è quello della produzione di questi
dispositivi difficili da riciclare in quanto in genere sono costituiti da più
strati di diversi polimeri. Come ha dichiarato al
periodico on-line Euronews Claudia Brunori responsabile presso l’ENEA
della Divisione efficienza delle risorse e chiusura dei cicli, “i paesi
dovrebbero sviluppare prodotti realizzati con lo stesso polimero in modo che
possano essere raccolti in appositi contenitori per essere successivamente
disinfettati e riciclati.” Oppure, sostengono altri ricercatori, si dovrebbe
indirizzare l’industria verso la
produzione di mascherine
riutilizzabili in cui solo il filtro necessita di essere cambiato.
Secondo Mike Bilodeau, direttore per l’Europa di Plastics Oceans, “in futuro
ogni ospedale o comunità locale dovrebbe attrezzarsi per la produzione in
proprio di DPI, senza dover aspettare che arrivino dalla Cina, il paese che tra
marzo e aprile di quest’anno ha esportato 27,8 miliardi di mascherine”.
Nell’immediato però Bilodeau è preoccupato per quello che potrebbe succedere
questa estate nelle località di vacanza dove per ragioni d’igiene si ricorrerà,
con grandi guadagni da parte dell’industria della plastica, a quei recipienti
monouso che, secondo una recente direttiva europea, sarebbero dovuti scomparire
proprio entro il 2020.
E anche se si facesse uso della plastica biodegradabile il problema resterebbe.
Come molti studi hanno dimostrato la degradazione non avviene infatti in
maniera costante in qualunque ambiente. Quando le correnti trasportano questo
tipo di plastica in acque fredde e profonde come quelle che si trovano tra la
Corsica e la Sardegna, essa si decompone più lentamente finendo spesso per
venire ingerita dalla fauna marina. Qualcuno ha profetizzato che nel 2050 i mari
potrebbero contenere più plastica che pesci. Facciamo il possibile perché questa
catastrofica previsione non si avveri.