Breve storia delle pandemie e dei rimedi
adottati
Dalla SARS al COVID19
passando per l’encefalite del West Nile e il morbo della Mucca Pazza
di Luisa Monini
Chi ha avuto modo di visitare i wet markets cinesi può facilmente comprendere il
fenomeno del salto di specie: tartarughe, tassi, furetti, pipistrelli, serpenti,
tutti vicini, tutti ammassati gli uni agli altri
in gabbie dove le deiezioni di chi sta sopra finisce su chi sta sotto.
Questa è lo scenario che fa da sfondo alla nascita del COVID 19 che, partendo
dalla Cina, ha invaso l’Italia, l’Europa e il mondo intero determinando una
pandemia che inevitabilmente ne richiama alla mente un’altra: quella del 1918
quando una influenza - soprannominata "spagnola" - cominciò a diffondersi in
tutto il mondo e nel giro di pochi anni contagiò circa un miliardo di persone,
uccidendone circa 50 milioni. Il virus responsabile, fu codificato come HSW1N1
(A0). Da allora il sistema immunitario umano è stato sorpreso ancora numerose
volte dalle mutazioni antigeniche dei virus responsabili delle ondate epidemiche
e pandemiche ma mai più in modo così drammatico e questo grazie anche alla
scoperta degli antibiotici che dagli anni 40 in poi hanno permesso di combattere
le complicanze dovute alle sovrainfezioni batteriche,
soprattutto quelle a carico dell’apparato respiratorio. Ma se, grazie a Fleming
ed alla sua penicillina, la storia dell’influenza con le sue complicanze è stata
in qualche modo mitigata e contrastata, nessuno scienziato ha potuto né potrà
mai prevedere le bizzarre mutazioni degli antigeni di superficie che i virus
compiono periodicamente quasi in una sfida intelligente fra il loro RNA ed il
DNA umano. L’ emoagglutinina (H) è la neuroaminidasi (N) sono le proteine virali
di superfice responsabili della risposta immunitaria nell’uomo e quindi delle
manifestazioni cliniche più o meno gravi.
E così periodicamente ogni tre-quattro anni, in seguito a mutazioni minori degli
antigeni suddetti, si sviluppano le epidemie mentre ogni 20 anni circa, in
seguito a variazioni maggiori che comportano addirittura la sostituzione
antigenica, si hanno le pandemie che colpiscono il mondo intero. Come la
“Asiatica” del 1957 con 40.000 morti.
Oggi, con il COVID19, stiamo assistendo ad un’ulteriore criticità della
globalizzazione che, favorendo l’incremento e la liberalizzazione degli scambi
commerciali di animali e di prodotti di origine animale, hanno portato ad una
più rapida diffusione di microorganismi e patologie con situazioni di grande
pericolo per la vita stessa dell’uomo.
È questa la storia delle zoonosi più recenti e gravi come la SARS, l’influenza
aviaria, l’encefalite del West Nile, il morbo della Mucca Pazza e oggi del COVID
19. Veri e propri attacchi al genere umano che i virus mettono in atto grazie
agli «ospiti serbatoio» in grado di esercitare il salto di specie.
Anche il virus che determinò la pandemia del 1918 era un virus speciale: “un
prodotto mortale e unico frutto della natura, dell’evoluzione e della convivenza
tra animali e umani”, scrissero gli scienziati dopo averne osservato gli
effetti. Sono trascorsi 102 anni da allora, i progressi della scienza sono sotto
gli occhi di tutti e i super antibiotici e i vaccini di nuova generazione fanno
sempre più la differenza tra la vita e la morte ma il meccanismo di azione dei
virus è rimasto sempre lo stesso «Piccole creature che mangiano grandi prede
dall’interno», sintetizza Jon Epstein, ecologo dei patogeni animali, riferendosi
soprattutto ai virus a RNA con genomi ristretti e con una frequenza di mutazioni
molto più elevata dei virus a Dna e popolazioni più numerose. La loro
«strategia» è di «esplodere» per «bruciare sul tempo» la risposta immunitaria
dell’ospite, inducendo infezioni acute in uno schema di morte o guarigione
dell’ospite stesso, senza la possibilità di coabitazioni come invece può
accadere nei virus a DNA. Gli esempi più noti sono i virus del morbillo, i
retrovirus (HIV-1) e certi coronavirus, tra cui le molte varianti del
raffreddore e virus «emergenti» come SARS-CoV, MERS-CoV (l’epidemia nella
penisola arabica del 2012) e ora del COVID 19. Il punto-chiave è che i virus a
RNA, per le caratteristiche appena descritte, hanno tra le loro opzioni per una
sopravvivenza a lungo termine il «salto di specie» e l’ospite serbatoio più
adeguato è spesso il pipistrello che, come conseguenza delle urbanizzazioni e
deforestazioni che sottraggono loro i nutrimenti abituali (zecche e zanzare), si
spingono sempre più verso le metropoli, in scantinati urbani e fabbriche. I wet
markets cinesi sono poi i luoghi ideali dove i pipistrelli, ospiti serbatoio,
possono diffondere i virus. E anche se ci sono attenuanti oggettive a
giustificare la nascita in Cina di epidemie come le due SARS, le due influenze
hongkonghesi e l’aviaria e il COVID19 (demografia, densità urbana, migrazioni
massicce interne e globali), bisogna ammettere la presenza di criticità
sull’elusione di certi snodi, in primis quello dei wet markets
con vendita di carne appena macellata e anche di animali selvatici vivi;
luoghi ideali dove i pipistrelli, ospiti serbatoio, possono facilmente
diffondere i virus. Il Covid-19 è verosimilmente “saltato” da un pipistrello a
un altro animale, forse un serpente, dove i due codici genetici si sono
mescolati, e da quel secondo ospite il virus ha spiccato un altro salto,
definitivo, sull’uomo che non ha anticorpi per contrastarlo dal momento che non
lo ha mai incontrato prima. Al momento non esiste un trattamento specifico per
il COVID-19 e non è ancora stato messo a punto un vaccino. Robert Gallo, il
ricercatore che nel 1983 insieme a Montagnier e Barré-Sinoussi individuò il
virus dell'HIV, sostiene che è certamente possibile realizzare un vaccino contro
il COVID19 ma che in seguito, prima di poterlo utilizzare su ampia scala,
bisognerà verificare la sua efficacia almeno sui primati. Con lui, autorevoli
ricercatori affermano che attualmente esistono ottimi farmaci già approvati per
altri usi e ora in sperimentazione nei pazienti Covid-19. Tra questi il
Tocilizumab*, già impiegato nel trattamento dell'artrite reumatoide, utilizzato
con risultati incoraggianti all'Ospedale Cotugno di Napoli su due pazienti
affetti da gravi polmoniti da coronavirus. C’è un altro farmaco antivirale, il
Remdesivir di Gilead Sciences, già testato clinicamente con successo per
combattere il COVID 19 in Cina e negli Stati Uniti al San Francisco General
Hospital. In Italia la fase 3 della sperimentazione è iniziata da pochi giorni
presso l’Ospedale Sacco di Milano, il Policlinico di Pavia, l’Azienda
Ospedaliera di Padova, l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Parma e l’Istituto
Nazionale di Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani (Roma). Il farmaco non è
ancora approvato per uso terapeutico e al di fuori degli studi clinici viene
fornito per uso compassionevole per il trattamento in emergenza di singoli
pazienti con Covid-19 in gravi condizioni e senza valide alternative
terapeutiche.
Ci vorrà tempo per arrivare ad inquadrare definitivamente lo scenario
socio-sanitario ed economico di questa prima pandemia del terzo millennio; oggi
quello che possiamo dolorosamente evidenziare è la sua veloce avanzata e la sua
sottovalutata letalità. Mentre scriviamo ( 11 aprile ) le persone morte per
COVIS 19 a livello mondiale sono oltre 95.000; di queste 19.468 sono italiani.
*Il Tocilizumab è un anticorpo monoclonale, cioè una proteina che, con alcune
sequenze di aminoacidi, si può ancorare alla proteina "Spike" del coronavirus.
Con tale meccanismo, spiega il farmacologo Giuseppe Nisticò, docente
dell'Università di Roma Tor Vergata, per oltre 10 anni membro italiano del
comitato scientifico e del consiglio d'amministrazione dell'Ema, l'agenzia
europea del farmaco, il farmaco può bloccarne la replicazione o arrestare la sua
virulenza. Era stato già documentato che il Tocilizumab è un farmaco capace di
bloccare la liberazione massiva della citochina IL6, indotta dal coronavirus a
livello cellulare e così prevenire i suoi effetti letali". (fonte AGI)