Quando storia e scienza si incontrano
di Adriana Giannini
In questi mesi mi sono occupata con sempre maggiore interesse delle donne che
hanno lavorato o continuano a lavorare nel campo della scienza e proprio in
questo tribolato mese di aprile ho trovato sulla prestigiosa rivista “Nature” un
lungo e documentato articolo che mi ha particolarmente incuriosito. Scritto dal
giornalista messicano Emiliano Rodriguez Mega, l’articolo parla dell’impegno e
dei risultati scientifici ottenuti da Nora Volkow come direttrice del NIDA, il
National Institute on Drug Abuse
che ha sede nel Maryland (USA). Prima donna a occupare una posizione così
importante, messicana di origine, cognome russo, ce ne sarebbe stato già
abbastanza per farmi leggere tutto d’un fiato l’articolo, ma a colpirmi è stata
innanzitutto la foto di apertura nella quale la dottoressa Nora Volkow è seduta
sugli scalini della Leon Trotsky House Museum, la casa alla periferia di Città
del Messico in cui visse per tre anni e fu assassinato Lev Davidovich Bronstein
meglio noto come Trotsky, il teorico marxista artefice, insieme a Lenin, della
rivoluzione di ottobre del 1917. Come racconta l’articolo, Nora è infatti
pronipote del noto intellettuale comunista perseguitato con tutta la sua
famiglia da Stalin perché non ne condivideva né le idee né il dispotico regime.
Quella che è ora un museo è la casa in cui Nora è nata e vissuta fino
all’adolescenza insieme ai genitori e alle tre sorelle, ma è anche la dimora in
cui nel 1937 Trotsky si era rifugiato insieme alla seconda moglie Natalia. Vi
era arrivato, accolto da vari amici tra cui Diego Rivera e Frida Khalo, dopo
varie peregrinazioni per l’Europa iniziate nel 1929, quando Stalin lo espulse
insieme alla seconda moglie dall’Unione Sovietica. Due anni dopo lo aveva
raggiunto, anche lui dopo molte disavventure, il nipote tredicenne Seva, figlio
della figlia che Trotsky aveva avuto dalla prima moglie, eliminata da Stalin.
Qui Seva, divenuto cittadino messicano col nome di Esteban e il cognome della
madre Sedow aveva continuato a vivere con la nonna acquisita anche dopo
l’efferato assassinio del nonno a opera di
Ramòn Mercader, un agente segreto devoto a Stalin infiltratosi
nell’agosto del 1940 nella casa-fortino di Trotsky nelle vesti di amico e
ammiratore delle sue idee. Seva, a cui era stata almeno risparmiata la vista
della testa del nonno spaccata da una piccozza, aveva coltivato con affetto la
sua memoria, tanto che la casa, oltre a contenere una vasta documentazione,
continua a ospitare in giardino un piccolo mausoleo con l’urna del nonno.
Esteban si era poi laureato in chimica e aveva sposato una stilista spagnola
arrivata in Messico per sfuggire al regime di Franco. Dal matrimonio erano nate
quattro figlie molto talentuose e lasciate libere di scegliere gli studi che
desideravano. In effetti tutte hanno fatto brillanti carriere: una come
poetessa, una come informatica e due come medico. Nora è una di queste ultime e
la sua specializzazione in neuropsichiatria l’ha portata alla prestigiosa
posizione a cui ho accennato all’inizio.
Laureatasi in medicina nel 1981 all’Università autonoma di Città del Messico,
Nora Volkow si è specializzata in neuropsichiatria alla New York University
iniziando subito a collaborare con il Brookhaven National Laboratory dove si
facevano i primi studi pionieristici sul cervello mediante la PET (la tomografia
a emissione di positroni), una tecnica che consente di visualizzare istante per
istante l’attività cerebrale in vivo. Inizialmente intendeva studiare il
funzionamento cerebrale dei soggetti affetti da schizofrenia, ma si era trovata
a doversi occupare dei numerosi casi di dipendenza da cocaina, una droga
diffusissima negli Stati Uniti negli anni ottanta in quanto ritenuta
relativamente sicura. Da allora, scansione dopo scansione, si era impegnata a
studiare le anomalie presenti nel cervello di coloro che si erano assuefatti
alla cocaina trovando sempre nuove conferma alla sua osservazione, ossia che la
droga non solo scompaginava la rete dei vasi cerebrali ma agiva negativamente e
con rapidità sui recettori della dopamina, il che poteva spiegare perché dava
una così forte assuefazione.
Negli anni novanta Nora Volkow era arrivata a scoprire che la droga danneggiava
in particolare la corteccia prefrontale, la regione del cervello che regola la
capacità decisionale e l’autocontrollo. Inoltre, insieme ai suoi collaboratori,
aveva dimostrato senza ombra di dubbio che l’uso continuativo di cocaina
diminuiva drasticamente il numero dei recettori della dopamina (i recettori del
circuito della ricompensa, ossia della sensazione di piacere provocata dalla
droga) creando così non solo la dipendenza, ma anche la necessità di dosaggi
sempre più elevati. La stessa cosa avveniva nei consumatori di alcool, eroina e
metanfetamine e anche di oppioidi spesso prescritti con troppa facilità per
calmare il dolore.
Queste scoperte erano importanti perché cambiavano la percezione sociale
della dipendenza. Chi ne soffriva non era un debole o un amorale, ma uno
che era affetto da una malattia cerebrale. Sostenere questo era una posizione
coraggiosa da molti punti di vista. Voleva dire cambiare approccio verso la
dipendenza sia dal punto di vista medico che giuridico e sociale. Inoltre
implicava e continua a implicare una sempre maggiore attenzione al mondo degli
adolescenti nei quali l’uso di droga diminuisce la percezione del rischio nei
confronti dell’AIDS, della criminalità e di altre situazioni pericolose.
Nora Volkow ha avuto moltissimi riconoscimenti sia per il suo lavoro di
scienziata sia per la sua capacità di ideare e portare avanti importanti
progetti innovativi. Il più
rilevante è stato quello di farle dirigere -
prima donna nella storia di questa trentennale istituzione - il National
Institute on Drug Abuse, un ente che gestisce un budget di oltre un miliardo di
dollari lasciandole, tra l’altro, la possibilità di non abbandonare le sue
importanti ricerche a Brookhaven.
Foto di grupo in cui spiccano
Il bisnonno di Nora sarebbe sicuramente orgoglioso di lei e di due dei suoi più
recenti progetti: seguire 12.000 bambini sani fino all’inizio dell’età adulta
per osservare come l’ambiente sociale possa influire sullo sviluppo del loro
cervello e ridurre del 40 per cento entro il 2023 le morti dovute all’uso di
oppioidi in 67 comunità disagiate
degli Stati Uniti. E per quest’ultimo progetto Nora sa bene che non basteranno
le indagini cliniche, ma bisognerà cambiare le condizioni di vita di chi si
rifugia nella droga perché non ha né casa, né lavoro.
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