Dalla peste del Manzoni

a quella di Camus

 

 

di Giuseppe Prunai

Alessandro Manzoni  ritratto  da Francesco Hayez

Due i testi classici nei quali viene descritta la peste: “I promessi spoi si svsi” di Alessandro Manzoni e “La peste” di Albert Camus. Tra l’edizione definitiva del libro del Manzoni, pubblicata nel 1842, e l’uscita del romanzo di Camus (1947) corrono esattamente 105 anni. Diverso il contesto storico in cuolgono gli avvenimenti, diversi gli intenti dei due autori, eppure un filo unisce le due opere: la paura della gente e l’ira nei confronti dei presunti responsabili, i cosiddetti untori, il disorientamento e, spesso, l’inerzia dell’autorità che dovrebbe agire, la spasmodica ricerca del paziente zero. Diversi gli intenti del Manzoni e di Camus. Il primo è teso a dimostrare la necessità della peste di Milano quale segno della presenza divina (la “provvida sventura”) quasi fosse una riedizione del diluvio universale; per il secondo, la peste di Orano, l’angoscia che suscita negli abitanti della città, confinati dal cordone sanitario che li isola dal resto del paese, è un’allegoria dell’angoscia della peste che si diffuse in Europa negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta: il nazismo.

Il Manzoni si basa su una sua ricerca storica che lo porta a speculare sulle cronache di Giuseppe Ripamonti raccolte sotto il titolo di “De peste qui fuit anno 1630”; Camus svolge la narrazione con lo spirito e il rigore di un giornalista (fu, infatti, redattore capo del quotidiano algerino Alger-Républicain e successivamente de la "Soir-Republicain") riferendo i primissimi indizi (i topi morti trovati qua e là) fino al dilagare della pestilenza e alla sua conclusione. Ma ciò che accomuna le due opere è, come già detto, la paura animalesca del male ignoto che porta alla morte.

Leggere il capitolo XXXI dei Promessi Sposi è come leggere una cronaca di oggi. Una volta acclarato (o supposto) che a diffondere la peste sia stata la calata dei lanzichenecchi, le autorità sanitarie del tempo si adoperarono nella ricerca dei focolai allo scopo di isolarli. Il paziente zero, come si dice adesso, fu individuato a Chiuso, nella zona di Lecco, al confine con la Bergamasca. Ma alla scoperta non seguirono i provvedimenti necessari, anzi si tentò di mettere tutto a tacere per non creare allarmismi. Le autorità sanitarie suggerirono di blindare Milano, chiudere le porte e non fare entrare alcun forestiero, ma chi doveva prendere questo grave, ma necessario provvedimento lo fece con circa un mese e mezzo di ritardo. E poi la chiusura non fu proprio ermetica visto che Renzo Tramaglino, venuto a Milano alla ricerca di Lucìa, riuscì ad entrare dopo aver dato alcune monete ad un gabelliere.

Ma oltre a questa finta chiusura delle porte della città, non  furono adottati altri provvedimenti tanto che fu il cardinale Federigo a dare istruzione ai parroci affinché ammonissero la gente sull’importanza della malattia e delle precauzioni da prendere, che allora erano soltanto la menta, la ruta, il rosmarino e l’aceto. Per la verità, un provvedimento molto importante fu preso: la chiusura ermetica, inchiodandone le porte, delle case dove qualcuno era morto di peste. Alcuni emissari della Sanità avrebbero dovuto provvedere a rifornire di cibo le famiglie segregate, ma non sempre lo facevano perché in quel periodo di crisi economica rubavano i pasti destinati ai sequestrati. (Nelle incisioni qui sopra, dovute al Francesco Gonin, realizzate per la prima edizione dei Promessi sposi, Ljucia Mondella e Renzo Tramaglino). 

La gente dapprima non comprese o non volle comprendere l’importanza della malattia. Anzi, si diffuse la convinzione, secondo la quale, la peste era solo un’invenzione per terrorizzare la gente e tenerla occupata con la mente mentre le autorità tramavano chissà cosa. Il medico Ludovico Settala, mentre si recava a visitare i suoi pazienti, fu aggredito da una folla di facinorosi che lo accusarono di diffondere il terrore nella città parlando di una malattia sconosciuta. Ma quando il male dilagò e la gente cominciò a morire di queste “febbri maligne” o “febbri pestilenti” fu il panico e si diffuse la credenza che a diffondere la peste fossero i cosiddetti “untori”. Renzo Tramaglino, a giro per le vie di una Milano deserta fu appunto accusato di essere un untore.

“Dagli all’untore” gli gridarono dietro e lui per sottrarsi a possibili violenze saltò sul carro dei monatti,  strani personaggi - forse lebbrosi guariti – che trasportavano i cadaveri al cimitero. Quando la folla minacciosa fu lontana, Renzo scese dal carro, accompagnato dai motteggi dei monatti: “va, povero untorello. Non sarai tu che appesterai Milano”. (A destra, il carro dei monatti)

Manzoni dedica un intero capitolo alla situazione economica di Milano e ad ulteriori provvedimenti di prevenzione, come il divieto delle processioni religiose e degli assembramenti mentre nella gente prende sempre più piede la teoria degli untori, del malocchio, del complotto contro lo stato e contro i milanesi. E si potrebbe continuare a riferire su quanto scrive Manzoni che dedica svariati capitoli dell’opera alla peste e alle sue conseguenze.

Diverso il contesto del romanzo di Camus (foto a sinistra). Assente del tutto lo spirito giansenista di Manzoni, lo scritto è pervaso di quel nichilismo cui si richiamava Camus. La vicenda, nata come una metafora del nazismo, a più di settant’anni dalla prima pubblicazione, alla luce degli avvenimenti di questi giorni, si è portati ad interpretarla letteralmente. Tutto comincia con il ritrovamento di un topo morto nell’ingresso di uno stabile di Orano. Nel breve volgere di tempo, i topi morti si moltiplicano. Poi è la volta delle persone. Il primo a  morire è il portiere dello stabile dove fu trovato il topo morto. Poi seguirono altre persone. Il numero dei decessi aumentò in modo esponenziale e ci si rese conto di trovarsi di fronte ad un’epidemia. La città fu isolata, la gente piombò nel terrore. Il prefetto dispose la denuncia obbligatoria degli ammalati le cui abitazioni dovevano restare chiuse e disinfettate. Finalmente qualcuno ebbe il coraggio di dare un nome all’epidemia: peste. Una parola che gettò gran parte popolazione nel terrore e nell’angoscia mentre altri continuavano a comportarsi come se nulla fosse, come se fossero immuni, considerando altamente improbabile un loro contagio e così facendo esponendosi maggiormente alla possibilità di contrarre il morbo.

Bella la figura del medico Bernard Rieux, quello che ha trovato il primo sorcio morto, che continua imperterrito a curare gli ammalati, dormendo appena tre ore a notte, affiancato da un piccolo gruppo di volontari fra cui un sacerdote, Padre Peneloux (e questa è l’unica tentazione di dare al male un significato trascendentale)  mentre si fa strada nel gruppo il concetto della responsabilità collettiva. Un concetto da tenere presente allora come ora, con la peste e con il Corona virus che non si sarebbe diffuso così rapidamente se ognuno di noi avesse seguito alla lettera quando disposto dalle autorità sanitarie e dello Stato.

Il Galileo