In ricordo di Gino Bartali
Campione del pedale e giusto fra le nazioni
di Paolo Negrelli
Tra le innumerevoli foto che raccontano la rinascita dell’Italia del secondo
dopoguerra, una in particolare è entrata nell’immaginario collettivo. Siamo in
Francia nell’estate del 1952, si corre la trentanovesima edizione del Tour de
France. Gli atleti sono impegnati nella decima tappa, che li condurrà da Losanna
all’Alpe D’Huez. Sul passo del Galibier, un fotografo immortala due atleti in
sella alle loro biciclette. I volti sono provati dallo sforzo della salita. Si
passano una bottiglia d’acqua, per alleviare i morsi della sete.
Quella immagine scriverà una pagina memorabile della fotografia sportiva e
consegnerà al mito i suoi protagonisti: Fausto Coppi – che vincerà
quell’edizione – e il suo maestro e rivale in sella Gino Bartali. Toscano,
classe 1914, “Ginettaccio” – come veniva soprannominato per il suo carattere
schietto – si era avvicinato al professionismo agli inizi degli anni ’30, e nel
triennio 1936/39 era stato consacrato quale numero uno del ciclismo italiano.
Nel suo ricco palmarès spiccano tre Giri d’Italia (1936, 1937 e 1946) e due Tour
de France (1938 e 1948).
Gli anni della guerra imposero uno stop al grande campione che, dopo
l’armistizio, vestì l’uniforme della GNR, la
Guardia Nazionale Repubblicana, nel quale militò come portaordini, dapprima in
motocicletta e poi inforcando la sua amata bicicletta.
L’adesione di Bartali (nella foto a destra: Bartali all'età di 21 anni,
nel 1935) alla RSI non fu mai chiarita e i suoi precedenti col regime furono
controversi. È noto che fu su richiesta dello stesso che partecipò all’edizione
del Tour de France del 1938. Ginettaccio si aggiudicò quell’edizione ma, al
momento della premiazione, si rifiutò di fare il saluto romano per celebrare la
vittoria.
Ottenuto il trasferimento a Cortona, Bartali entrò in contatto con alcuni
esponenti della rete DELASEM – Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti
Ebrei – rete che offriva supporto alla popolazione ebraica, e che a quell’epoca
era entrata in clandestinità per sfuggire alle deportazioni.
Sfruttando il suo incarico nella GNR e la sua fama di campione, Bartali compì
numerosi viaggi da Cortona ad Assisi, trasportando nel telaio della propria
bicicletta informazioni e foto per la realizzazione di documenti falsi utili per
la fuga degli ebrei rifugiati. Si calcola che la sua opera abbia direttamente
salvato la vita di circa 800 persone.
I suoi innumerevoli giri in bicicletta, spacciati come percorsi di allenamento,
gli garantirono la protezione necessaria per svolgere la sua opera di
assistenza.
Terminata la guerra, Bartali si dedicò nuovamente al ciclismo professionista,
vincendo l’edizione cruciale del Tour de France del 1948, vittoria che da più
parti è considerata come uno dei contributi alla cessazione del clima di
tensione sviluppatasi in Italia a seguito dell’attentato a Palmiro Togliatti.
Bartali si ritirò definitivamente dal professionismo nel 1954 e scomparve,
mantenendo il massimo riserbo sulle proprie imprese durante la guerra, nel
maggio del 2000. Fu grazie all’opera del figlio Andrea che l’intera vicenda
venne alla luce.
Per le sue azioni e la sua dedizione alla causa degli ebrei perseguitati, nel
maggio 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi lo insignì,
postumo, della medaglia d’oro al valor civile.
Un secondo riconoscimento giunse il 23 settembre del 2013, quando lo Yad Vashem
per la sua opera tributò il campione col titolo di Giusto tra le Nazioni.
Un 83enne Bartali (a sinistra) al Giro d'Italia del 1997, mentre insieme
all'altro ex ciclista Francesco Moser (a destra) onora la maglia rosa
dell'edizione, Ivan Gotti (al centro)
In questi giorni, così vicini alle ricorrenze per il 75esimo anniversario della
liberazione del campo di Auschwitz, un doveroso omaggio va a tutte quelle donne
e quegli uomini che si prodigarono per offrire ad altri un lume di speranza in
quegli anni bui.
Donne e uomini che, passata la tempesta, tornarono alle loro esistenze senza
cercare gloria per le loro azioni. Perché, come disse lo stesso Gino Bartali,
“il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non
alla giacca”.