Stiamo andando verso un apartheid climatico

L’aumento dell’anidride carbonica in atmosfera determina la crescita della temperatura globale. Fra gli effetti più drammatici, le morti causate dal clima e almeno 120 milioni di nuovi poveri entro il 2030

 

di Bartolomeo Buscema

 

Un tifone fotografato dal satellite 

Lo scorso 4 agosto, l’osservatorio di Mauna Loa (Hawai), ha rilevato una percentuale di anidride carbonica pari a 410,34 ppm: un valore mai raggiunto negli ultimi 800mila anni. Un preoccupante incremento se si pensa che prima dell’era industriale si registravano valori intorno a  280 ppm e che molti scienziati del clima fissano il  livello di sicurezza  a 350 ppm. L’osservatorio hawaiano è un posto significativo per due ragioni: si trova a  un altitudine  di 3397 metri e rappresenta il sito con le più lunghe registrazioni  dirette  di misura della percentuale di anidride carbonica. Le misure cominciarono nel marzo del 1958, grazie a C. David Keeling allora ricercatore presso lo Scripps Institution of Oceanography, un pioniere dello studio del clima. E’ noto che il tasso di anidride carbonica e la temperatura media globale sono significativamente connessi tra di loro: un aumento della prima variabile induce un aumento della seconda. E’ l’effetto serra. Secondo la rivista internazionale Nature Climate Change, ci sono ben 467 scenari negativi sul futuro del clima globale. Qui ne elenchiamo solo alcuni: le morti dovute a ipertermia nei casi di ondate di calore in zone non abituate a temperature alte; le morti dovute agli annegamenti causate dalle inondazioni e quelle provocate dalle siccità estreme. Per non parlare della recrudescenza ,nei paesi poveri, di epidemie di malaria, dengue, colera o diarrea, legata   alla difficoltà  crescente  nell’approvvigionamento di acqua potabile. Tutti questi effetti hanno ricadute immediate sui redditi, sulla ricchezza e sui posti di lavoro delle popolazioni colpite che purtroppo sono in gran parte quelle del terzo mondo. Per non parlare delle tensioni tra le nazioni che spesso sfociano in vere e proprie guerre foriere di migranti climatici. Stando alle stime della Banca asiatica per lo sviluppo, nel 2100, i migranti climatici in tutto il mondo potrebbero raggiungere la cifra impressionante di un miliardo, a meno di una rapida e vigorosa inversione di tendenza dell’attuale modello di sviluppo ancora, purtroppo, basato su una sfruttamento intensivo dei combustibili fossili. Comunque sia, un quadro di estrema precarietà sullo sfondo di un’ingiustizia globalizzata come ci informa un recente rapporto Oxfam nel quale si legge che il 10% più ricco della popolazione mondiale, emette il 50% dei gas serra, mentre il 50% più povero della popolazione mondiale, è responsabile solo del 10%. I poveri, purtroppo, non hanno strumenti  finanziari per difendersi dagli effetti negativi del cambiamento climatico, e quindi rischiano di essere quelli che pagheranno, in modo sproporzionato, le conseguenze peggiori. Al contrario, le nazioni ricche quasi sicuramente riusciranno mettere in atto gli aggiustamenti necessari per affrontare il clima futuro sempre più caratterizzato da una crescente virulenza dei fenomeni che hanno luogo nella bassa atmosfera. Un quadro che determina una sorta di “apartheid” (la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca del Sudafrica, e rimasta in vigore fino al 1991), legato al cambiamento climatico, come ci ha ricordato Philip Alston, relatore speciale dell’Onu sui diritti umani e la povertà estrema, che ha presentato, lo scorso giugno, a Ginevra, un corposo dossier durante un incontro internazionale intitolato “Climate change, poverty and human rights”. Lo scienziato australiano è stato molto chiaro: le misure adottate finora per combattere il cambiamento climatico globale sono inadeguate e del tutto insufficienti rispetto all’urgenza e all’entità della minaccia. Il cambiamento climatico, ha aggiunto, rischia di annullare i progressi fatti negli ultimi cinquant’anni per lo sviluppo economico delle popolazioni povere, la salute globale e la lotta alla fame determinando, entro il 2030, almeno 120 milioni di nuovi poveri. Allora la segregazione razziale era legata al colore della pelle. Oggi, è  legata a un pianeta sempre più caldo, a un modello di sviluppo insostenibile, all’inqualificabile sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Le ripercussioni sulla salute

di Bartolomeo Buscema

 

Peggioramento della qualità dell’aria, maggiore frequenza delle ondate di calore, aumento della diffusione di malattie infettive: queste alcune delle principali conseguenze dell’aumento delle temperature medie globali legate ai gas serra tra cui l’anidride carbonica è la principale imputata. Da qualche anno, vari report del Lancet Countdown on Health and Climate Change, un organismo di monitoraggio mondiale e indipendente  , misurano gli impatti del cambiamento climatico sulla salute. Nell’ultimo rapporto, frutto della collaborazione tra ventisette grandi università di tutto il mondo, l’ONU e altre agenzie intergovernative, si legge che il cambiamento climatico avrà sempre più effetti negativi su quasi ogni aspetto della vita delle popolazioni, specialmente quelle in via di sviluppo. In particolare, lo studio ha analizzato i vari fattori che aumentano la vulnerabilità umana di fronte al cambiamento climatico, individuandone le strategie di adattamento in campo sanitario, i benefici per la salute, le ricadute economico-finanziarie. Per gli estensori del rapporto, guidati da Nick Watts, professore all’Institute for Global Health dell’University College di Londra, persiste un atteggiamento di notevole inerzia rispetto all’accelerazione dei cambiamenti climatici i cui effetti deleteri non riguarderanno solo i popoli più vulnerabili che vivono in Paesi poveri, ma anche quelli che vivono nei Paesi industrializzati. Il quadro complessivo mostra che in molti settori dell’industria, dell’agricoltura e dei trasporti, la transizione verso un’economia a basse emissioni di anidride carbonica appare debole e in alcuni casi asfittica. I progressi registrati finora sono insufficienti se si considera che il tempo stringe e che, secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), abbiamo  solo un periodo di 12 anni per cercare di impedire  un aumento della temperatura media globale della Terra di 1,5 °C (rispetto all’era pre industriale) oltre il quale la nostra Terra entrerebbe in una fase di notevole instabilità climatica. Un incremento di temperatura correlato a un aumento di anidride carbonica emessa.  E’ noto che la quasi totalità dei climatologi individua un intervallo d’incertezza compreso  tra 350 e 450 parti per milione (ppm) di anidride carbonica  per poter ancora salvare il Pianeta. Purtroppo, oggi, con 410 ppm di anidride carbonica nell’atmosfera siamo sempre più vicini al valore critico di non ritorno. Ora è chiaro che bisogna uscire da questo letargo, alimentato, soprattutto, da chi con i combustibili fossili fa affari inquinando, spesso impunemente, il nostro globo. La lotta non sarà facile sia perché i signori del petrolio e del gas naturale venderanno molto cara la loro pelle, sia perché necessitano cambiamenti rapidi, lungimiranti e senza precedenti in tutti gli aspetti della società.

Qual è la posta in gioco? La sopravvivenza della specie umana, oltre che  quella di molte specie animali. Una sopravvivenza  legata  principalmente alle ondate di calore e all’inquinamento  chimico della bassa atmosfera. Ecco alcuni dati: nel 2017, a livello globale, sono aumentate di 157 milioni le persone esposte alle ondate di calore, rispetto al 2000. Specialmente in Europa dove più del 40% della popolazione ha un’età superiore ai 65 anni, la fascia di età più colpita dalle conseguenze del caldo. E’ bene evidenziare che, oltre ai rischi diretti sulla salute, le ondate di calore generano diseconomie dovute alla perdita di giornate di lavoro nelle aziende e negli uffici. Nel 2017, a causa del caldo, sono stati persi 153 miliardi di ore di lavoro, l’80% delle quali proprio nel settore agricolo. In aggiunta, registriamo che l’aumento delle temperature porta con sé anche l’insorgenza di molte malattie infettive trasmissibili causate dalla diffusione di insetti che fungono da vettori che facilitano la proliferazione di specie batteriche o parassitarie mai viste prima. E poi, c’è anche l’inquinamento galoppante della bassa atmosfera che rappresenta una delle prime cause di morte a livello globale. Si stima che circa sette milioni di persone muoiano ogni anno per patologie legate a un’aria malsana. E ancora, si deve aggiungere l’aumento delle aree siccitose che causano sacche di popolazioni mal nutrite dovute alla perdita di terreno coltivabile. Uno scenario critico che esige un intervento finanziario massiccio ed efficace per le necessarie azioni di adattamento. Purtroppo, i finanziamenti già erogati in tale ambito, sono molto meno (qualche per cento) dei 100 miliardi di dollari annuali promessi fino al 2020 negli accordi di Cancun del 2010.C’è, però, la speranza che in futuro tutte le azioni volte alla sostenibilità ambientale diventino punti nodali per il successo e la sostenibilità finanziaria delle imprese che oggi sul mercato si arricchiscono con la vendita dei combustibili fossili.

Il Galileo