Giro d’Italia e gastronomia
di Mario Talli
Quasi mai nella mia
ormai lunga attività di giornalista mi è capitato di accingermi a scrivere un
articolo su argomenti più o meno controversi avendo in mente una risposta già
confezionata. Non l'ho mai fatto perché sono sempre stato convinto che il
giornalista abbia il dovere di offrire ai lettori tutte le spiegazioni e le
interpretazioni possibili, sulla base degli elementi raccolti, di un fatto o di
un avvenimento. Beninteso, quando è il caso bisogna sempre assumersi la
responsabilità di esprimere giudizi e opinioni. Aggiungerò un'altra riflessione,
questa ancora più intima: raramente ho usato nei miei articoli il pronome
singolare. Lo faccio talvolta
soltanto adesso perché, avendo un'età ragguardevole, mi sento in qualche modo
autorizzato, nel soppesare i fatti,
a servirmi esplicitamente delle mie esperienze e dei miei ricordi.
Venendo subito
al punto, sono stato sollecitato a trattare l'argomento di questo articolo
dall'eccezionalità, in questa nostra epoca secondo me qualitativamente piuttosto
scadente, di due trasmissioni
televisive offerte dalla Rai, la rete che per missione e vocazione dovrebbe
tendere a divulgare il più possibile prodotti qualitativamente apprezzabili,
anche quando si tratta di trasmissioni di puro e semplice intrattenimento. Credo
che nessuno pretenda dalla Rai –
sicuramente non io – di ammannire al suo pubblico soltanto trasmissioni di alto
profilo culturale che, se non ben confezionate da mani esperte, possono
risultare indigeribili ai più e anche un po' uggiose. Ed in effetti quando parlo
di profilo culturale – alto o basso che sia – non alludo soltanto a programmi
dedicati alle varie espressioni artistiche, alla scienza o alla storia e alla
geografia. Più esattamente, intendo dire che in ogni trasmissione, anche la più
semplice, quella con meno pretese e dedicata allo svago e al
divertimento, la tv pubblica dovrebbe badare a non scendere al disotto di
una certa soglia a proposito della qualità e del buon gusto.
Invece purtroppo
mi pare che da qualche anno anche quella che un tempo, in modo molto sbrigativo
- e probabilmente con un sottinteso
intenzionalmente polemico - si era
soliti chiamare la Televisione di Stato, sia frequentemente scesa al disotto di
quella soglia, quasi fosse
intenzionata a rincorrere le televisioni private che nel corso degli anni, quasi
inavvertitamente, hanno conquistato uno spazio sempre maggiore.
Ma è il momento di
parlare delle trasmissioni che, una da più lungo tempo, l'altra appena il mese
scorso, hanno suscitato il mio interesse di semplice spettatore, senza alcun
titolo da vantare.
La trasmissione che
ormai da molti anni appare una o due volte la settimana e con una durata più o
meno lunga, conservando intatto il suo appeal,
sul secondo canale Rai dopo il telegiornale delle 13 si chiama Tutto il
bello che c'è. Il suo intento, come d'altronde si capisce subito dal titolo, è
di cercare e poi di proporre all'attenzione dei telespettatori tutto quello che
risuona di bello e positivo nei campi più disparati della realtà quotidiana del
nostro Paese. La parte del leone lo ha la gastronomia, non a caso uno degli
elementi di richiamo, insieme alle
bellezze artistiche e architettoniche, dell'Italia. La trasmissione si occupa
ovviamente anche di queste ultime, ma l'aspetto che più mia colpito è la
semplicità del linguaggio e delle riprese. Non una parola di troppo o immagini
sopra le righe.
La trasmissione, come
molti sapranno, fu ideata da due giornaliste del TG “,
Maria Grazia Capulli e Silvia Vaccarezza. La prima delle due purtroppo
poté condurla solo per pochissimo tempo, stroncata in giovane età da una di
quelle malattie che non perdonano.
Nonostante il male che la attanagliava, come quei marinai
che vollero seguire le loro navi
che sprofondavano negli abissi marini, restò al suo posto fino agli
ultimissimi giorni della sua breve vita. E' rimasta Silvia Vaccarezza,
sorridente e soave come era la sua collega, a testimoniare che una buona e bella
televisione, nonostante tutto è ancora
possibile.
L'altra trasmissione,
durata quasi tutto il mese di maggio e conclusasi domenica 2 giugno insieme al
Giro ciclistico d'Italia, si chiamava Viaggio nell'Italia del Giro, che aveva
come protagonista di spicco Edoardo Camurri, saggista, scrittore, autore
televisivo e tante altre cose ancora.
Come sanno tutti
gli appassionati di ciclismo – e io sono tra costoro – alcune tappe, quelle che
hanno per teatro la pianura e destinate a concludersi con un volatone generale,
sono di una noia mortale. L'andamento è sempre lo stesso: un gruppetto di
corridori che s'invola poco dopo la
partenza, il gruppone che insegue senza affannarsi troppo per gran parte della
tappa e che poi raggiunge i fuggitivi in prossimità del traguardo, con i
velocisti che infine si contendono la vittoria. In quei frangenti, ad evitare
che lo spettatore spenga
il televisore, interviene la bellezza e la ricchezza dei paesaggi
attraversati. Il Giro è infatti un'occasione unica per “visitare” l'Italia, per
scoprire territori, città e borghi che altrimenti rimarrebbero sconosciuti ai
più. Quest'anno, poi, il percorso del Giro è stato ancor più interessante e
suggestivo del solito, benché il cattivo tempo abbia fatto di tutto per
comprometterne la visione.
La trasmissione
pilotata da Camurri ha fatto da apripista di ogni tappa. Opportunamente inserita
mezz'ora prima dell'inizio della ripresa TV di ogni tappa, ne svelava
i risvolti più belli e affascinanti. Non soltanto le particolarità
storiche e artistiche dei territori e delle località attraversate, ma anche ciò
che le telecamere al seguito dei corridori non avrebbero potuto mostrare, cioè
alcuni prototipi, sempre interessanti e caratteristici,
delle loro popolazioni. Il tutto condito da uno spirito di osservazione,
un acume e un'ironia di un
autore-attore come Camurri, improvvisatosi per l'occasione ciclista
dilettante.
Mi rendo conto che altre, per fortuna, sarebbero le trasmissioni della televisione pubblica che meriterebbero una citazione di apprezzamento. Per il momento mi limito a segnalarne un paio: Quante Storie di cui è coautore e conduttore Corrado Augias e Passato e Presente, di Paolo Mieli. Augias e Mieli, entrambi giornalisti molto noti, hanno almeno una cosa in comune, la passione per la storia. In Augias questa passione si esplica nelle sue trasmissioni denotando una evidente inclinazione pedagogica. Insomma, mi verrebbe da dire che la vera sua vocazione forse era l'insegnamento. Avendo scelto o essendosi trovato a esercitare la professione di giornalista, gli è venuto naturale, specie quando ha avuto che fare con il mezzo televisivo, adottare i metodi dell'insegnante, comprese le benevole rampogne e tiratine di orecchie. Paolo Mieli non ha forse nessuna inclinazione pedagogica, che compensa tuttavia, nelle sue trasmissioni, con il rigore documentario e l'apporto di storici di professione.