Da Pompei a Trieste
per svelare la composizione dell’inchiostro dei romani
Il maxi acceleratore di elettroni Luce di Sincrotrone al servizio dei beni
culturali
di Giuseppe Prunai
A volte succede. Si va a zonzo per gli angolini più riposti del PC, per hard
disk esterni, per chiavette, CD e DVD, e ci si imbatte in una congerie di dati,
documenti e foto, ormai dimenticati, che, ad anni ed anni di distanza, assumono
un ruolo ed un significato incredibile. Sono ricordi della nostra attività,
della nostra vita. Se mi passate l’immagine, è
la nostra sedimentazione. A me è anche accaduto di ritrovare in cantina,
notoriamente l’anticamera della discarica, un vecchio PC, con un sistema
operativo a dir poco arcaico, provvisto di un lettore di floppy disk. La
tentazione e l’opportunità è stata grande e, nel giro di qualche giorno, sono
riuscito a riversare su chiavetta un pacchetto di floppy disk che pensavo di
dover gettare. E da quell’ammasso di dati è venuta fuori una mia vecchia storia
di una ventina di anni fa relativa ad una visita all’area Science Park di
Trieste, sistemata in pieno Carso (bisogna camminare con prudenza per non finire
in una foiba), vicino a Basovizza. La storia, venuta fuori mentre visitavo il
laboratorio Luce di Sincrotrone “Elettra”, riguarda l’archeologia. Chiederete
subito: che c’entra questa diavoleria della fisica con l’archeologia, che è una
scienza umanistica? C’entra e, se avrete la pazienza di leggermi, lo spiego.
Il laboratorio è costituito da un enorme acceleratore di elettroni. Un lungo
tubo di notevole diametro posto ad anello in cui gli elettroni viaggiano ad una
velocità prossima a quella della luce. E proprio una luce viene emessa da un
fascio di elettroni quando viene deviato da un campo magnetico. A seconda
dell'energia degli elettroni e dal tipo di curvatura che viene loro imposta da
grossi magneti, la radiazione può essere luce visibile, ma anche luce di onda
più corta, come luce ultravioletta e raggi x. Difficile spiegare Elettra e le
sue applicazioni in poche righe. Ci affidiamo al titolo di un dépliant: “Una
luce per la scienza” e ancora “Dentro la materia”. Le applicazioni di questa
macchina sono innumerevoli. Ad esempio, i raggi x emessi possono servire per
effettuare delle radiografie estremamente precise, soprattutto
mammografie. Vi sono dei casi in cui la normale radiografia lascia dei
dubbi: c’è o non c’è il tumore? Con la lastra fatta con luce di sincrotrone il
dubbio scompare.
Ho visto delle lastre di una nitidezza e di una definizione incredibile che
mostrano l’interno di un seno malato e di uno sano. (E mentre la ricercatrice ci
mostrava sul diafanoscopio le lastre di tette sane e malate e vantava la loro
bellezza io, abituato da sempre a dissacrare tutto, pensavo: ecco cosa significa
l’espressione “bella dentro”!)
Un’altra applicazione è quella del monitoraggio delle polveri sottili. Questa
pratica si ferma – per legge - al peso del PM10, ma non alla sua composizione
che è facoltativa e riguarda quasi esclusivamente gli idrocarburi policiclici
aromatici (IPA). Dopo alcune indagini sulla composizione delle polveri sottili,
effettuate tra il 2003 e 2004 presso i laboratori ESRF di Grenoble e Elettra, a
Trieste, che hanno evidenziato l'efficacia delle tecnica ai raggi x, il
Sincrotrone di Trieste ha dato il via ad un programma di ricerca in
collaborazione con Arpa-TS e Legambiente-TS. Non avete idea di quello che
contengono queste “polveri”: i metalli pesanti, i veleni. Tutta roba che
respiriamo ogni giorno, che per 33 volte al minuto (è questa la frequenza media
del respiro) inseriamo nei nostri polmoni e che non espelliamo più perché si
fissa negli alveoli polmonari e li occlude. E poi dicono che fumare fa male!
Ma ciò che ci interessa adesso è l’uso di questa macchina in supporto ai beni
culturali per scoprire i falsi, per datare i reperti, per leggere antichi
manoscritti senza rovinarli.
Recentemente, è stata condotta un’indagine insolita sull’inchiostro usato dagli
antichi romani.
Un passo indietro. Un’ archeologa dell’Università di Trieste, Giulia Mian,
partecipò ad una campagna di scavi a Pompei dove trovò un calamaio. La Mian ce
lo mostrò orgogliosa: il reperto sembra un piccolo vaso da fiori di terracotta.
Uno dei tanti che popolano i nostri balconi o i davanzali delle nostre finestre
con dentro una pianta grassa o un fiore e che, più o meno diligentemente,
innaffiamo ogni sera.
Ero molto emozionato nel toccare quest'oggetto che, un po' meno di 2.000 anni
fa, era appartenuto ad un nostro simile, forse ad un funzionario pubblico, o a
un intellettuale, o a uno studente, che se ne serviva per scrivere. Mentre i
ricercatori spiegavano la loro indagine, fui colto da quello stato d'animo, fra
l'esaltato e il commosso, che provai, tanti anni fa, quando posai per la prima
volta i piedi sul selciato dell'Appia Antica.
Anche da lì, più di duemila anni fa, erano passati altri esseri umani portandosi
dietro il loro fardello esistenziale. E, allora, la fantasia lavora: vedo un
signore che indossa una candida toga e che intinge nell'inchiostro una penna
(una canna appuntita, in latino “calamus”: da qui il nome italiano del
contenitore dell'inchiostro) e scrive attento a non lasciar cadere gocce nere
sulla veste bianca.
Non scrive sulla carta, che allora non c'è, più probabilmente su un papiro o su
una pelle di animale conciata in un modo particolare (la cartapecora, appunto,
la pergamena) o su una tela di canapa sbiancata. Lavora seduto a uno scrittoio
con il piano leggermente inclinato e, nella parte più alta, c'è il calamaio, l'
“atramentarium” che contiene l'inchiostro, “atramentum”. Oppure è un giovane
studente, un “puer” o un “adulescens”. Indossa la “toga pretexta” sulla quale,
di tanto in tanto, si spande una macchia nera. È ai primi esercizi di scrittura
con il “calamus”. E allora è facile rivedersi con il grembiulino, in prima
elementare, per la prima volta alle prese con la penna ed il pennino da
intingere nell'inchiostro, contenuto in un calamaio di vetro che aveva, più o
meno, la stessa forma di quello trovato a Pompei.
Penna e pennini con cui si scriveva fino a qualche decennio fa
Quando sono andato a scuola per la prima
volta, non esistevano le penne a sfera. Si scriveva con la penna formata da un
supporto di legno e da un pennino di metallo da intingere nel calamaio sistemato
in un foro, praticato sul banco. Ogni mattina il bidello lo riempiva con una
specie di grosso bricco da caffè, con un lungo beccuccio. In quello si intingeva
il pennino, si pulivano gli eccessi di inchiostro con il puliscipenne (che era
un piccolo panno di feltro) e si cominciava a scrivere. Quando il pennino era
nuovo, si doveva bagnarlo con lo saliva perché gli acidi di questa rendevano
leggermente scabro il metallo in modo da trattenere l’inchiostro.
Potete immaginarvi come si riducevano le mani a forza di macchie e il grembiule,
che di solito era nero: quando la mamma lo lavava faceva un’acqua così sporca da
fare schifo!
Ma torniamo al calamaio di Pompei. Se è stato facile individuare la natura del
contenitore, più difficile determinare la natura del contenuto. Con la parola
“atramentum”, i latini indicavano ogni liquido nero di qualsiasi natura. Ma come
veniva realizzato l'inchiostro? Ne parlano due autori, Plinio e Vitruvio, ma le
loro ricette rispondono al vero? Ed erano le uniche disponibili? Qualcuno parla
di inchiostro mescolato con aceto per farlo aderire meglio al papiro. In questo
caso, l’aceto fungeva da mordente. Ma quando i papiri andarono in pensione come
si procedeva?
Nella sezione “Nuove tecnologie per i beni culturali” del laboratorio, si è
pensato di fare un'analisi del contenuto dei residui di inchiostro con “luce di
sincrotrone”. L'interno del calamaio è stato raschiato e la polvere raccolta è
stata analizzata ai raggi x prodotti da Elettra. Sono stati individuati alcuni
lapilli, dovuti all'eruzione del 79 dopo Cristo, il resto era inchiostro
essiccato. La sua composizione: nero fumo (prodotto dalla combustione al chiuso
di legno di pino), acqua e gomma arabica. Nessuna traccia di aceto. Un ricetta
diversa da quelle descritte da Plinio e da Vitruvio.
Un tassello in più di cognizioni sulle tecniche di scrittura dell'epoca.
Qualcuno sorriderà ritenendola una scoperta non molto importante. Ma
l'importanza è rappresentata dallo stesso metodo di indagine. Pensiamo a cosa
può cambiare l'uso di questo maxi acceleratore per indagare sui beni culturali,
soprattutto per l'individuazione del falsi.