Pasqua di sangue in Sri-Lanka

Nel mirino la Chiesa Cattolica

 

 

di Magali Prunai

 

Lo sguardo triste di chi non ha parole e speranza, gli occhi lucidi di chi ha appena smesso di piangere perché ha esaurito tutte le lacrime. La desolazione, la tristezza, il senso di impotenza di un uomo che a chilometri e chilometri di distanza osserva il proprio paese martoriato da una serie di attentati terroristici. È così che mi appare davanti agli occhi il mio ex portinaio. Non mi sono preoccupata di informarmi della sua famiglia perché so che abita lontano dalla zona dell’attentato di Pasqua in Sri-Lanka. Sapevo male. La sua famiglia è andata a messa il sabato Santo, si è salvata solo per questo. Non è stato così fortunato un suo amico che, con la moglie e due figli piccoli, ha trovato la morte in un giorno in cui si celebra la vita.

L’impotenza di un uomo, di un marito, di un padre che vorrebbe proteggere i suoi bambini ma non può farlo, che vorrebbe rassicurare la moglie ma non può farlo.

Questo il dramma di centinaia di cittadini cingalesi sparsi un po’ per tutta Europa che nell’ultimo mese hanno ascoltato le poche notizie che arrivavano sempre meno dal proprio paese, alla ricerca di informazioni, conforto, rassicurazione che “casa” rimane sempre e comunque un posto sicuro dove andare, dove tornare.

Le notizie arrivano sempre più alla spicciolata, a un mese di distanza forse il pubblico europeo non è più interessato. Il giorno di Pasqua una tragedia in chiesa è sempre sensazionale, ma già il giorno seguente la distanza si fa sentire ed ecco che altro cattura l’attenzione e una strage passa in secondo piano.

La distanza, il fuso orario, l’oceano che si interpone fra noi e loro e il via via dimenticarsi, e il dare sempre meno importanza. Che ciò accade lo notiamo anche dalle solite reazioni “social”. Quando la Francia, la Germania, il Belgio sono stati colpiti dalla terribile follia umana in momenti di festa come i mercatini di Natale o i fuochi d’artificio per il 14 luglio, non c’era europeo, e non solo, che per giorni e giorni non pubblicava frasi di cordoglio, i famosi “je suis...”, foto di bandiere, immagini di profilo di “social network” con le bandiere di sfondo. Analisi politiche, sociologiche, demagogiche, storiche, religiose. Manifestazioni di vicinanza e l’assicurazione che nessuno avrebbe smesso di viaggiare e di viaggiare nei luoghi colpiti. E poi la storia si ripete, questa volta però in un posto troppo lontano, in un giorno di festa per tantissimi. Sul momento parte la solita banale e sterile tiritera di “pray for...”, “siamo tutti cingalesi”... Ma poi l’agnello è in tavola, è il momento di affettare la colomba e montare la sorpresa dell’uovo.

Eccola l’ipocrisia dell’uomo moderno, che sceglie quale foto strapperà più consensi ai suoi “followers” accompagnandola con citazioni piene di enfasi e poesia, glorificandosi (o vanaglorificandosi?) della propria umanità, religiosità e dimenticandosi della vera essenza della Pasqua tanto che poi, al di fuori di una fotocamera, il sipario si chiude e tutti si dimenticano di tutti.

Ed è così che è passato un mese da quei tragici fatti e quasi più nessuno ci pensa, quasi più nessuno ne parla. Per quasi un mese le Chiese cattoliche sono rimaste chiuse, per questioni di sicurezza. La loro riapertura, da pochi giorni, è passata quasi in sordina. Come è passato in sordina il fatto che per evitare altri attentati si è deciso di chiudere un luogo di culto invece che di trovare un sistema di “lotta” alla follia umana. Follia, perché uccidere gente inerme senza ragione o mossi da idee di superiorità di qualsiasi genere sempre è stata e sempre sarà solo follia.

Il Galileo