Io e il Giornale del Mattino

 

La sede del giornale in via delle Ruote

 

di Giuseppe Prunai

Per noi era “Il Mattino” tout court, forse in omaggio alla prima denominazione della testata: “Il mattino dell’Italia centrale”. Solo fuori della Toscana, adottavamo la denominazione corrente “Il giornale del mattino” per non confonderlo  con “Il Mattino” di Napoli. Io ero uno dei circa trecento dipendenti del giornale, una quarantina i giornalisti. Avevo uno strano contratto perché ero pubblicista e all’epoca il contratto di lavoro non prevedeva la presenza in redazione di questa categoria di giornalisti. Professionalmente sono nato al “Mattino”. Prima alla redazione di Siena, poi a quella centrale, a Firenze.  Cominciai giovanissimo. Prima mi offrii alla Nazione, ma il corrispondente, con  molta supponenza, mi disse  che un ragazzo avrebbe dovuto pensare solo a divertirsi e mi cacciò e per indorare l’amara pillola mi  regalò un biglietto gratis per il cinema. Al Mattino, il corrispondente Arrigo Pecchioli (un nome che a Siena ancora ricordano) mi mise alla prova. Frequentavo la quarta ginnasio (anno scolastico 1950-51)  e, uscito di scuola, prima di tornare a casa, mi recavo al pronto soccorso del locale ospedale a copiare il libro dei referti.  Almeno allora, il pronto soccorso era una miniera di notizie: gravi incidenti stradali, incidenti domestici, risse e quant’altro producesse lesioni passava per lì.  Le notizie che raccoglievo venivano poi completate da un collega accreditato in questura. Poi, il Pecchioli si trasferì a Roma per assumere un importante incarico e, dopo un breve interregno, arrivò Guido Farolfi, recentemente scomparso, con  il quale ho avuto l’opportunità di lavorare gomito a gomito al Giornale Radio della RAI, che mi affidò una serie di servizi di una certa importanza.

Nel 1956, la mia famiglia si trasferì a Firenze perché mio padre era stato nominato Soprintendente archivistico per la Toscana ed io entrai a far parte della   redazione sportiva. Allora il giornale concedeva il massimo dello spazio allo sport giovanile, soprattutto calcio e ciclismo, e spesso il commento delle  partite giovanili o di quarta serie (la promozione di allora) era affidata ad un tecnico di livello nazionale. Uno di questi era Miguel Montuori, l’attaccante della Fiorentina dello scudetto (campionato1955-56)  che però, essendo di madre lingua spagnola, non sapeva scrivere in italiano. Allora, dopo un breve rodaggio, toccò a me accompagnarlo a vedere le partite. Io facevo la cronaca e lui il commento che io riscrivevo in corretto italiano. In redazione mi soprannominarono il ”Rustichello da Pisa”, lo scrittore che aveva scritto “Il Milione” sul racconto di Marco Polo.

 

31 luglio 1966: va in macchina l'ultimo numero del Giornale del Mattino

 

Dopo alcuni anni, arrivò lo strano contratto che mi aprì le porte della redazione province con alcune puntate in cronaca e una collaborazione costante alla terza pagina, la pagina culturale che vantava dei collaboratori di tutto rispetto. Nei primordi del giornale, fra i collaboratori ci furono Carlo Cassola e Manlio Cancogni. Ai miei tempi, i collaboratori si chiamavano Ernesto Balducci, Davide Maria Turoldo, Piero Bargellini, Luigi Baldacci, per citare i nomi più noti.

A metà anni cinquanta i giornali fiorentini, Il Mattino e La Nazione dovettero farsi carico di numerosi redattori de Il nuovo corriere che aveva cessato le pubblicazioni. La Nazione assunse pochissimi redattori, Il Mattino ne prese molti di più. Non riuscì ad accaparrarsi il direttore del corriere, Romano Bilenchi, che preferì La Nazione dove, praticamente, non scrisse mai nulla o quasi. Il prezzo del silenzio, disse qualcuno. Chi conosce a fondo i risvolti di questa storia non ha mai parlato.

Il giornale entrò in crisi quando Fanfani e La Pira furono emarginati alla metà degli anni sessanta, cioè quando la DC ebbe una decisa sterzata a destra. Il segretario, Mariano Rumor, tagliò i viveri a quel giornale che la sua corrente aveva soprannominato  “l’araldo del compromesso storico”. Nel gennaio del 1966 ci fu una riduzione del personale. Fra i licenziati c’era il sottoscritto che poi fu riassunto a fine febbraio perché avevano licenziato troppa gente e non riuscivano a fare fronte alle varie edizioni.

Intanto, il tribunale di Firenze dichiarò il fallimento della società editrice del giornale ma autorizzò l’esercizio provvisorio che andò avanti fino al 31 luglio 1966 quando uscì l’ultimo numero del giornale.

La ripicca di Rumor nei confronti di Fanfani e La Pira produsse oltre 300 disoccupati di svariate categorie professionali, difficilmente riassorbibili in una città come Firenze. La nazione si fece carico di due o tre giornalisti soltanto, pochi tipografi e qualche impiegato. Il resto dovette emigrare. I tipografi si spalmarono in molte tipografie commerciali a Firenze e in altre località della Toscana. Uno emigrò in Svezia. Gli impiegati amministrativi furono, in parte, ricollocati fra banche, RAI, e aziende varie. Per i giornalisti cominciò il calvario.  Poche unità furono assunte in vari giornali e all’ANSA, il grosso emigrò in RAI, tanto a Roma che nelle sedi regionali. Ettore Bernabei, che non ostante la cacciata dei fanfaniani era rimasto al suo posto di direttore generale del servizio pubblico radiotelevisivo, si fece carico del maggior numero di giornalisti. Io fui uno dei miracolati.

Difficile non commuoversi rievocando gli ultimi giorni del giornale. Molti dei licenziati a gennaio avevano preso l’abitudine di ritrovarsi la notte dinanzi alla sede del giornale, nella fiorentina  via delle Ruote, forse sperando in una ripresa economica del quotidiano e quindi della riassunzione. La notte della chiusura, in via delle Ruote si radunò una folla di persone che sembrava di reduci da un funerale. Qualcuno piangeva, altri dicevano, più per convincere se stessi che altri, che il giornale avrebbe riaperto a breve. Qualcuno si fece prestare una scala dal portiere di un vicino albergo e salì a mettere un mazzo di fiori dinanzi al tabernacolo dipinto da Ottone Rosai. Altri ripetevano, più o meno convinti, che quando si chiude una porta si apre un portone. Per tutti non fu così.

Il tabernacolo dipinto da Ottone Rosai sulla facciata principale della sede del giornale

Quei convegni notturni dinanzi alla sede del giornale continuarono per alcune settimane. Ed era una pena vedere le luci spente ed essere immersi in un incredibile silenzio un tempo rotto dal rumore infernale della rotativa, dal rombo dei motori delle auto che portavano i pacchi dei giornali ai treni, dal rumore della tipografia e della redazione. Di quegli incontri che somigliavano sempre di più ad una veglia funebre finimmo per stancarci.

Adesso nella sede del giornale c’è una banca. Dove c’era la rotativa c’è il salone con gli sportelli al pubblico e ai piani superiori, dove c’era l’amministrazione, la redazione e la composizione, ci sono gli uffici. La notte, quello che fu il parcheggio del giornale è deserto (prima c’erano le auto anche in terza fila) e la strada non vibra più per il movimento della rotativa.

Questa è la storia del “Giornale del mattino” che è anche la storia dei miei esordi professionali. Una storia che per me si è concluse bene ma che mi lasciò egualmente la bocca amara e una grande sfiducia in una certa politica dopo aver visto che per indebolire ulteriormente un avversario il segretario del partito di maggioranza non aveva esitato a mettere sul lastrico più di 300 persone.

Il Galileo