In memoria di un compagno

L’introspezione chi è stato giovane

a cavallo tra fascismo, Resistenza e democrazia

 

di Mario Talli

 

Argante Marzocchi 

    Qualche giorno fa ho appreso casualmente che Argante era morto e che la sua scomparsa risale addirittura a sei anni addietro. Con Argante – il cognone è Marzocchi – eravamo stati amici negli anni della fanciullezza e dell'adolescenza e poi compagni nella Resistenza e nell'impegno successivo per ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto e cooperare con quanti si davano da fare per assicurare all'Italia un ordinamento democratico, possibilmente in sintonia con ideali di progresso civile e di giustizia sociale.

    Argante apparteneva ad una famiglia di contadini mezzadri. La sua casa distava poco più di un chilometro dal paese (Montaione, provincia di Firenze). Durante la Resistenza fu un luogo ove nascondere temporaneamente le armi destinate ai partigiani, che alcuni uomini che non conoscevamo consegnavano a noi poco più che ragazzi (perciò più difficilmente sospettabili) perché le facessimo arrivare ai giovani renitenti alla leva o fuggiti dai reparti militari di appartenenza che stazionavano nelle fitte boscaglie della zona, sulle colline della Valdelsa.

    Dopo la fine della guerra, con Argante ho condiviso l'impegno politico (non di tipo esaustivo e tantomeno professionale) fino all'anno 1954, quando decisi di lasciare l'impiego in Comune e il mio paese per fare nuove esperienze e conoscere altre realtà rispetto a quelle che fino ad allora mi erano state consuete. Da quella data in poi non ci siamo più visti. Fu lui a farsi vivo un paio di volte (io allora abitavo a Roma) per invitarmi ad una battuta di caccia al cinghiale che i cacciatori suoi compaesani – Argante era diventato sindaco di Gambassi Terme, un paese prossimo a quello dove entrambi siamo nati – erano soliti organizzare, ma per un motivo o per l'altro non ho mai potuto aderire all'invito. Fra parentesi aggiungerò che gli abitanti dei due paesi erano sempre stati fieramente  contrapposti in una lite di campanile, per cui non senza sorpresa avevo accolto la notizia che Argante non solo si era trasferito proprio in quel paese, sempre esercitando l'attività di contadino mezzadro, ma ne era addirittura diventato sindaco.

Conoscendo bene il soggetto, la sorpresa durò poco. Argante non era tipo da restare invischiato in beghe di campanile. I suoi ideali erano elevati. E le sue azioni sempre e comunque coerenti con essi. Sarei tentato di dire che non aveva difetti, ove ciò fosse possibile. Mi limiterò a dire che era una bella persona. Era generoso e sognatore ma non per nulla astratto. Al contrario, era concreto e coerente. E attento a non fare torti e tantomeno del male a qualcuno, anche se involontariamente.

     Egli è rimasto sindaco di Gambassi Terme per ben diciotto anni. Anche la durata dell'incarico non mi ha sorpreso, come non mi ha per nulla meravigliato apprendere he aveva preso a scrivere poesie. Alla sua morte è stato scritto di lui: “L'onestà, la passione e la sobrietà con cui ha svolto il suo incarico hanno saputo dare nel miglior modo possibile rappresentanza a una comunità che ha sempre anteposto i propri valori condivisi agli interessi di una parte. Sopratutto poi Argante ha avuto cura della sua gente, perché per fare il sindaco serve prima di tutto amore per il proprio paese: lui ha testimoniato questo amore attraverso l'impegno con cui per 18 anni della sua esistenza, con assoluto disinteresse personale, ha amministrato i suoi concittadini. E dedicando a Gambassi tante di quelle poesie che lui, sindaco e contadino, ha scritto per quasi tutta la vita.”

    Espressioni quasi simili pronunciò il sindaco allora in carica, Federico Campatelli, in memoria di colui che lo aveva preceduto nell'incarico. Nell'attuale congiuntura storica, nella quale pare facciano difetto la considerazione per il prossimo e per il bene comune, non parrà superfluo citare anche queste: “Argante faceva parte di quella generazione nata negli anni della dittatura fascista, precipitata adolescente o poco più nella tragedia della guerra e che si era assunta subito dopo, giovanissima, la responsabilità di ricostruire materialmente e moralmente, il Paese, facendosi classe dirigente politica e amministrativa. Giovani spesso con la quinta elementare, in gran parte contadini e operai, che si adoperarono con appassionato impegno perché si voltasse per sempre pagina rispetto alla dittatura e alla guerra.”

    Ma chi era effettivamente Argante, il detentore di un nome così impegnativo, evocativo di poemi cavallereschi. Non parlerò della comune esperienza nella Resistenza perché sono sicuro che a lui non farebbe piacere: mai e poi mai avrebbe voluto dare l'impressione di voler autocelebrarsi. Quando presentì che la sua fine era prossima, avvertì che preferiva  non vi fosse alcuna commemorazione pubblica. Un paio di episodi possono essere più efficaci di tante parole per delinearne la personalità. 

    Quando avevamo rispettivamente 17 e 15 anni (Argante era nato nel '26, io nel '28) di lui si era invaghita una nostra coetanea molto bella che tutti quanti guardavamo con occhi concupiscenti, ma egli non ne approfittò per intrecciare una relazione amorosa. Poiché già a quell'età prendeva le cose della vita molto sul serio, fece finta di non accorgersi di quella simpatia perché non voleva illudere e poi deludere quella fanciulla connotata da uno sviluppo precoce e rigoglioso.

      A guerra finita, Argante, io e altri tre o quattro amici di età tra i 16 e i 19 anni decidemmo di fare la nostra prima esperienza sessuale “completa” e ci recammo in una casa di tolleranza di Firenze. Il sedicenne ero io e per potervi accedere  dovetti innalzare di due anni la data di nascita sulla carta d'identità, cosa per me agevole dal momento che come impiegato comunale allo stato civile e anagrafe ero proprio io che le rilasciavo. Una volta entrati, tutti piuttosto emozionati, mentre io e gli altri non tardammo a salire in camera (le camere erano al piano soprastante), Argante rimase nella sala dove le ragazze mostravano le loro grazie ai potenziali clienti. Quando scendemmo, lo trovammo intento a parlare con una di esse. La cosa che subito ci stupì fu che il colloquio, perché di un vero e proprio colloquio si trattava, era tranquillo e disteso. Cosa quasi impensabile in un ambiente dove davvero il tempo era denaro  e perciò  la fretta regnava sovrana. Quando infine uscimmo all'aperto, Argante ci raccontò che voleva capire perché la ragazza avesse scelto quella vita degradante e se magari fosse disposta a ripudiarla. Per poter parlare con la ragazza  e vincere le perentorie sollecitazioni della “maitresse” a salire in camera oppure andarsene, anche lui aveva pagato la “marchetta”, addirittura aveva pagato la tariffa doppia come usava per chi volesse trattenersi in camera più a lungo.

    Mi viene in mente soltanto ora che non abbiamo mai parlato tra noi due, né allora, quando c'era il fascismo, né dopo, quando il fascismo non c'era più, dei nostri sentimenti nei confronti di esso e dell'idea che ce ne eravamo fatti. Il fascismo era parte (ed era una parte tutt'altro che secondaria) del mondo in cui eravamo nati e cresciuti e con cui bisognava convivere quotidianamente alla stregua delle altre “presenze incombenti”: la religione, la scuola, la famiglia...Di certo amavamo la Patria ed era naturale che apprezzassimo chi, come il fascismo e i fascisti,  mostravano di tenerla in gran conto. Non avevamo gli strumenti necessari  per capire che il fascismo faceva di questo sentimento nobile un uso ignobile.

     D'altronde, non avevamo che una vaga percezione dell'esistenza di altre ideologie  o più semplicemente di altri modi di pensare. Di coloro che praticavano idee avverse a quelle del fascismo sapevamo soltanto ciò che ci avevano fatto intendere: che erano nemici della Patria, che negavano Dio e che erano persino contro il matrimonio in quanto fautori dell'amore libero. Messe così le cose, c'era poco da scegliere.  Sia Argante che io non volevamo vivere solo per noi stessi. Volevamo relazionarci  con ciò che esisteva al di fuori di noi, e al di fuori di noi, oltre al prossimo, c'erano soltanto il fascismo e la Chiesa.

     Il precipitare degli eventi (la guerra in casa, l'arresto di Mussolini, l'armistizio...) ci indusse d'un colpo ad allargare lo sguardo. Ricordo come una tappa significativa del nostro nuovo cammino che dall'oggi al domani smettemmo di scambiarci i libri di Jack London, Dickens e Verne per dedicarci a nuove letture: Gorki, Tolstoi, Gogol, Victor Hugo, Zola, Balzac. E cominciammo anche ad immaginare un mondo diverso. Intanto un mondo senza la guerra, i bombardamenti aerei, i cibi razionati, i tedeschi che la facevano da padroni nel nostro Paese. Ma poi anche un mondo nel quale i figli dei contadini e degli operai non fossero condannati a fare i contadini e gli operai e, ove lo volessero, potessero studiare oltre la terza e la quinta elementare, i parametri allora esistenti per gli appartenenti a queste categorie sociali.

    E' possibile che Argante, idealista e sognatore, fosse più in sintonia col fascismo di quanto lo fossi io che, sebbene non avessi dubbi di sorta, guardavo con allegro disincanto ai frequenti rituali cui anche noi partecipavamo. Una cosa  che più di tutte mi sconcertava fino ad apparirmi quasi comica era il nero tetro delle uniformi dei gerarchi, i loro copricapi  dalla forma piatta e come schiacciati sulla testa e sormontati da un vistoso distintivo raffigurante un'aquila dorata: l'aquila, insieme al moschetto, era una delle presenze maggiormente ricorrenti nella simbologia del regime. E poi i loro stivali  rigidi , il passo cadenzato, il piglio fiero e grintoso, la voce tonante e assertiva  durante le cerimonie...E infine il florilegio di slogan: “Il Duce ha sempre ragione”, “E' l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”. Come se i contadini dovessero diventare dei soldati in servizio permanente effettivo. Quanto alle loro donne, dovevano sentirsi orgogliose dell'appellativo di “massaie rurali”.

    Parecchi anni dopo la fine della guerra venni in possesso  di una denuncia  che il Fascio repubblicano (ma io preferirei continuare a dire, come si diceva allora,  “repubblichino”) di Montaione aveva inoltrato contro noi due e altri sette giovani alla federazione fiorentina. Nella denuncia, del novembre 1943, ci si addita come “giovani sovversivi” autori di una serie di azioni antifasciste: il tentativo di penetrare nella casa del fascio, l'affissione e la diffusione di volantini. Non so se anche Argante venne in possesso di quel documento. Probabilmente si.  Comunque sia, ora che lui non c'è più,  lo conservo in ricordo della nostra amicizia.

Il Galileo