Storia
di una generazione senza radici
finito
nella pattumiera
di
Giuseppe Prunai
I
nonni se ne vanno e i nipoti stupidi, rozzi ed incolti fanno un fascio di tutto
ciò che ingombra l’appartamento appena ereditato. E tutto finisce sui banchi dei
mercatini delle pulci: vecchi mobili, qualcuno anche di pregio, abat-jour,
tende, vecchie foto ingiallite che fa tenerezza guardarle, quadri di scarso
valore e libri. Soprattutto libri che i più non
amano perché ingombranti, perché quelli vecchi sono polverosi e non hanno una
rilegatura elegante. Perché il libro, se dotato di una bella copertina e di una
costola colorata con lettere in oro, fa bella figura nella libreria del salotto,
è un elemento di arredo a prescindere dal suo autore e dal contenuto, si tratti
di un romanzetto rosa, di un messale o un testo di filosofia. Dal genere di
libri che si trovano nei mercatini, si può stabilire quale generazione se ne sia
andata. Qualche decina di anni fa, era la volta dei libri sulla guerra 15-18 (i
ragazzi del 99 sono stati gli ultimi
a farla), poi si passò a quelli sulla tragica spedizione polare di Umberto
Nobile. E la sorpresa fu grande, perché oltre al testo, per così dire,
ufficiale redatto da Giuseppe Biagi, tenace ed abile radiotelegrafista
del dirigibile Italia, (una narrazione, in parte, addomesticata e tesa a
celebrare le ricerche dei naufraghi da parte degli aviatori e dei marinai dell’
Italia fascista e a sminuire la decisiva missione di soccorso dell’Unione
Sovietica) ne compaiono altri, scritti da membri stranieri della spedizione, per
lo più scienziati, che criticano l’operato degli italiani, presenti in gran
numero alle isole Svalbard, tutti impegnati a mettersi in mostra, a presiedere
riunioni, ad elaborare progetti impossibili, a farsi intervistare e fotografare.
Nella sua cronaca, il fisico ceco Frantisek Behounek insinua, probabilmente a
ragione, che gli italiani non facessero ricerche fingendo di fare ricerche: al
regime, a Mussolini serviva un eroe da accogliere trionfalmente e da sbandierare
in faccia al mondo oppure un martire sulla cui bara piangere lacrime di
coccodrillo. Fatto sta, che Umberto Nobile, cadde in disgrazia, anche per le sue
simpatie socialiste, e fu costretto ad emigrare.
Tornando a questi nipoti distruttori (non tutti, per la verità) della
generazione digitale, che parlano un’incomprensibile neolingua, è facile
constatare che non hanno radici, che non vogliono avere radici. E una società
senza radici è una società senza storia che andrà poco lontano e sarà facile
preda dei falsi miti, degli “idola” dai quali Francesco Bacone esortava a
liberarsi perché sono soltanto
illusioni o
fantasmi della nostra mente, che falsano l’esperienza e il concetto della
natura.
Ma
torniamo ai nostri mercatini delle pulci. Fra le vecchie foto incorniciate che
ritraggono gente d’altri tempi (militari con divise ormai in disuso e baffoni a
manubrio, spose con abiti da favola, temerari signori con cappello a cilindro
che affrontano un velocipede, ed altri signori che sembrano vestiti da
astronauta, con casco e occhialoni, che si cimentano nella guida delle prime
automobili – foto che evocano un pagina di Tom Antogini che ne “L’immorale
testamento di mio zio Gustavo” esprime tristezza al vedere il ritratto del nonno
acanto ad un pitale sul furgone dei traslochi) ho scoperto un piccolo quadro,
un dipinto ad acquerello.
La
cornice dorata, con un filo intagliato sul bordo esterno, è ricoperta dalla
patina del tempo. Anche il passe partout è ingiallito. Il dipinto, estremamente
dilettantesco, è privo di qualsiasi valore artistico: si vede una strada a
sterro, poco più che un viottolo di campagna, che corre
lungo un fiumiciattolo, con alcuni alberi, che potrebbero essere ontani,
ai lati e sullo sfondo. La composizione evoca un paesaggio lombardo da vallata
alpina, ricca di acqua e di verde e in quel contesto stride quella strada
giallastra che sembra di
sabbia. La prospettiva è scolastica non priva di
errori grossolani. L’immagine è sdoppiata. Insomma, tutto il contrario di
un capolavoro. Eppure, in quei semplici tocchi di pennello, c’è qualcosa che
attrae. Sembra che quel dipinto voglia dirmi qualcosa che non capisco.
Poi, volto il quadro e sono sorpreso della scritta sulla carta che chiude
la cornice, vergata con grafia incerta, probabilmente con una vecchia penna a
cannuccia intinta d’inchiostro nel calamaio: “Acquerello eseguito in prigionia –
Egitto – 1943 – da G.”. Più sotto, una mano più ferma, ripete che il quadruccio
fu dipinto dal Capitano G.M. di Brescia quando era prigioniero di guerra. E
allora penso che la mano sia stata guidata dalla nostalgia di casa, della
famiglia, anche se condizionata dall’unico colore dinanzi agli occhi: il giallo
del deserto, e dalla nostalgia dei “vaghi ruscelletti dei prati lombardi” come
dice il coro dei “Lombardi alla prima Crociata” di Giuseppe Verdi.
Chissà
chi era il capitano G.M.? Probabilmente all’epoca avrà avuto fra i 35 e i 40
anni. Probabilmente apparteneva alla Divisione Fanteria “Brescia”, forse
ufficiale di carriera, forse di complemento, uno dei tanti “richiamati” che si
chiedevano perché, per combattere “contro la Russia barbara e contro
l’Inghilterra”, come recitava una delle “Canzoni del tempo di guerra”, fossero
dovuti andare in Africa, in Libia, lo scatolone di sabbia. Forse il capitano
G.M. aveva combattuto a Giarabub, forse a Tobruch, probabilmente aveva
attraversato con gravi disagi la depressione di El Qattara preludio alla
decisiva battaglia di El Alamein. L’esito
di quello scontro fra le aride sabbie del deserto: 10mila morti fra italiani e
tedeschi, 15mila feriti, 34mila prigionieri. Nell’intera campagna d’Africa i
morti dei due schieramenti furono oltre centomila. Ne valeva la pena? A questo
penso quando cerco di immaginare chi fosse il capitano G e quando guardo quel
quadruccio che ho appeso in salotto e che è un pezzo di storia, il ricordo di
una tragedia di una settantina di anni fa che chi l’ha vissuta, anche solo di
riflesso non come combattente ma come popolazione civile, non riesce a dimenticare. Un serie di tragici avvenimenti del passato
che gettano un’ombra sinistra ed un’ipoteca sul nostro presente.