Quasi senza che ci se ne avveda il mondo cambia
sotto i nostri occhi ad una velocità vertiginosa. Come se la
rapidità
insita nella rivoluzione digitale contagiasse senza rimedio
tutte quante le faccende umane e le modificasse a sua immagine e somiglianza. I
segnali del mutamento sono infiniti e non risparmiano nessun ambito della nostra
vita. Contrastare questo andamento appare quasi illusorio: non rimane che
chiedersi se nel mutamento prevalgono gli effetti positivi o quelli negativi.
I punti di osservazione sono infiniti,
praticamente tutto ciò che si muove attorno a noi
- e dentro di noi – e che in modo diretto o indiretto ci coinvolge.
Potremmo cominciare dalla vita nelle nostre città e nei nostri paesi dove appena
pochi anni fa il vivere quotidiano
era scandito secondo procedure prestabilite e quasi immutabili. Oggi non è più
così. Il processo di globalizzazione e di urbanizzazione
(i due fenomeni sono strettamente interconnessi) ha prodotto effetti
dirompenti, anche se talvolta contraddittori. Gli abitanti dei centri storici
delle città, ad esempio, tendono a spostarsi nelle periferie o nelle campagne
circostanti e quelle che furono le loro case spesso diventano avamposti di un
turismo mordi e fuggi, che si muove alla rinfusa senza distinguere ciò che è
peculiare e interessante e ciò che invece non lo è. Firenze, la città in cui
vivo, da questo punto di vista è un punto di osservazione quanto mai illuminante
– e inquietante.
Firenze, per come la vedo io, non è più una
città unica con una zona centrale e le periferie che le fanno da corona. Il
centro, con i suoi palazzi storici, le sue architetture, le sue infinite
bellezze oggi è una cosa a sé, meta di un turismo numeroso, rumoroso
e oggettivamente aggressivo, mentre le periferie dànno scarsi segni di
vita propria come invece avveniva un tempo. Poiché i punti di aggregazione
sociale e persino le più semplici e immediate occasioni di incontro (il
ciabattino, il macellaio, il salumiere, il barbiere)
stanno scomparendo, i vecchi quartieri e rioni si stanno via via
trasformando in dormitori. Via de' Neri, antica strada della Firenze di qualche
secolo fa e di quella narrata da Vasco Pratolini, situata a due passi da Palazzo
Vecchio, è una rappresentazione plastica del mutamento: comitive di turisti e no
sono soliti consumare seduti sui marciapiedi e sul lastricato stradale le
cibarie appena acquistate nelle botteghe dei pizzicagnoli. Percorrere quella
strada, in tutte le ore, di giorno e di notte, è diventato piuttosto disagevole.
Dicevo prima che i segnali del mutamento del
modo di vivere sono infiniti. Praticamente non c'è aspetto della nostra vita che
si sottragga a questo destino. Non ci sarebbe neppure da meravigliarsi: è sempre
stato così. Da che mondo è mondo nessuna cosa è rimasta per sempre uguale a se
stessa. La differenza tra l'ieri e l'oggi è data dalla rapidità del cambiamento.
Non sempre, però, il cambiamento avviene
all'insegna del nuovo. Probabilmente a causa della crisi e del progressivo
dissolvimento di alcuni punti fermi (le ideologie, i partiti, ma anche di talune
consuetudini come il gioco delle carte e del biliardo, il cinema almeno una
volta la settimana – oggi le sale cinematografiche rimaste sono spesso
semivuote) in moltissime città e paesi hanno riacquistato un insospettabile
lustro e vigore le rievocazioni storiche di rispettiva pertinenza, con grande
sfoggio di costumi medievali, di spade e balestre e di cibarie semplici ma dai
sapori forti. E il tuffo all'indietro non si ferma qui, interessa e contempla
perfino la fisionomia delle persone, il loro aspetto esteriore. Mi riferisco al
trionfo, per me sorprendente e inspiegabile, ma che pare non abbia suscitato
alcuna sorpresa o interrogazione nella generalità delle persone, dei baffi e
delle barbe di memoria ottocentesca. Vorrei tanto essere uno storico del costume
o, meglio ancora, uno scienziato di qualche disciplina connessa a questo genere
di fenomeno, per cercare delle risposte plausibili e soddisfacenti.
I rivolgimenti,
come è ovvio, non tralasciano la cultura in generale e la letteratura in
particolare. Mai come in questi anni si è assistito in Italia ad una
proliferazione così intensa e copiosa di romanzi e scrittori. In ragione anche
delle nuove tecnologie che hanno enormemente facilitato e reso l'impresa
abbordabile da chicchessia, quasi ogni giorno spuntano nuovi libri e nuovi
scrittori. Un discorso a parte lo meriterebbero quei miei colleghi che si
autodefiniscono giornalista e scrittore. Ricordo come fosse ieri quanto mi disse
una volta lo scrittore (lui si, e molto bravo) e anche giornalista Romano
Bilenchi , che a suo tempo fu mio direttore. “Pallino, non dar retta a chi dice
che giornalismo e scrittura sono la stessa cosa. La similitudine è soltanto
apparente. In realtà le due attività non vanno d'accordo. Anzi: si elidono a
vicenda.”
Ciò non significa che un giornalista o qualsiasi
altra persona non possa scrivere un libro bello e interessante. Solo che
scrivere un buon libro non significa essere uno scrittore. Piuttosto bisogna
intendersi su cosa si intende
davvero con la parola “scrittore”. Apparentemente scrittore indica uno che
scrive. In realtà l'espressione ha un sottinteso ed ha acquistato nel tempo un
significato ambiguo. Il sottinteso è che scrittore non vuol dire semplicemente
“uno che scrive”, qualsiasi cosa egli scriva e de-scriva: dalla vita delle
lucertole alle azioni e ai sentimenti degli uomini e delle donne. Uno scrittore
ha delle specificità sue proprie e solo sue, magari differenti da un altro
scrittore, che altri che scrivono non hanno. Specificità che attengono alla
forma (lo stile), alla suggestione delle immagini evocate, alla funzionalità del
tessuto narrativo e alla
profondità del contenuto. Il significato vero ed autentico della parola
scrittore è di colui che crea personaggi, storie e situazioni che portano alla
luce sentimenti e pensieri nascosti negli anfratti più reconditi del cuore e
della psiche.
Restando nell'ambito culturale e letterario non
posso fare a meno di additare un caso, sempre in riferimento alla superficialità
(faciloneria?) con cui si dà alle stampe un libro e si conferisce ad un ignoto
qualsiasi l'appellativo di scrittore, che riguarda il supplemento culturale di
un giornale importante, che da qualche settimana pubblica un romanzo a puntate
scritto da più mani: ogni puntata un autore. Può darsi che il mio sbigottimento
sia eccessivo o addirittura privo di fondatezza, ma non posso non accostare
questo episodio alla generale “rilassatezza” del costume e del vivere civile di
cui in precedenza ho citato alcuni esempi.
In questo mondo farlocco un'altra cosa che
risalta è la mediocrità dell'attuale ceto politico. Anche questa è un'opinione
strettamente personale, che può essere condivisa oppure no. La velocità degli
accadimenti gioca anche qui un ruolo fondamentale. Alcune decine di anni orsono
chi intraprendeva l'attività politica si preparava a puntino ed erano gli stessi
partiti a fornire ai propri aderenti gli strumenti necessari per fare il grande
salto tra la militanza pura e semplice e la dirigenza e il funzionariato. Oggi
invece l'elemento prevalente è l'improvvisazione, talvolta accompagnata
dall'improntitudine.
Che Dio ce la mandi buona.