l’uomo metropolitano studiato da Simmel
Il sociologo tedesco ha fatto un’impietosa descrizione dei comportamenti umani a
cavallo tra 800 e 900 tralasciando tuttavia l’apparire, una deviazione nata nei
primi decenni del ‘900
di Magali Prunai
Chi almeno una volta nella vita non ha provato un po’ d’invidia per qualcuno? È
un sentimento normale, fisiologico e che nella giusta misura non reca danno a
nessuno: né all’invidioso né all’invidiato. Anzi, in alcuni casi potrebbe essere
il giusto stimolo a migliorarsi e a fare di più.
L’invidia
altro non è che il rammarico o il risentimento per un successo altrui o per la
quantità di beni posseduti da altri. Da bambini, mentre si fanno i capricci, si
guarda con invidia il gelato che mangia l’amico e che a noi viene negato; a
scuola si invidia il 10 del compagno di banco mentre ci strappiamo i capelli per
il nostro 4; da adulti i contesti sociali e lavorativi cambiano e si rimpiange
il non aver fatto quella o quell’altra scelta che ci ha precluso una determinata
strada che invece è stata percorsa da un’altra persona. A quel punto proviamo un
altro tipo di sentimento, che più che invidia potremmo chiamare rancore.
Invidiare il prossimo perché possiede di più, perché possiede beni diversi dai
nostri, perché ha fatto scelte diverse da noi perché ne ha avuto la possibilità
o si è creato la possibilità e, di conseguenza, covare odio e rancore fino a
sminuire l’altro per sentirci migliori è sicuramente una delle malattie dell’era
moderna, ma non solo.
Ai primi del ‘900 un sociologo tedesco, Georg Simmel, (Berlino, 1º marzo 1858 –
Strasburgo, 26 settembre 1918, foto a sinistra) analizzò l’uomo moderno mettendo
in luce alcuni aspetti negativi del suo carattere ai quali non si è posto un
freno e che, col tempo, sono solo peggiorati.
L’uomo, dice Simmel, iniziando a vivere in contesti sociali più ampi e
frammentati perde il contatto con l’altro, diventando sempre più individuale ed
egoista. I valori tipici delle piccole comunità, i rapporti con gli altri,
perdono man mano di spessore fino a ridursi a freddi e sterili contatti con
centinaia di sconosciuti. Ciò che conta, continua nella sua analisi, è il denaro
che diventa un metro di giudizio quantitativo e non qualitativo. L’uomo moderno
acquista tutto, non importa cosa e come, l’importante è acquistare e far vedere
di poterlo fare.
Simmel ha pubblicato i suoi studi più importanti fra il 1885 e il 1900, eppure
nel 2018 leggendo la sua analisi dell’uomo moderno, che lui chiama uomo
metropolitano, non possiamo non pensare all’era 2.0, come amiamo chiamare il
periodo storico in cui viviamo.
Dobbiamo sempre dimostrare agli altri di possedere, cosa non importava all’uomo
del 1900 come non interessa a quello del 2018. Come possiamo possedere, debiti,
rate, prestiti di ogni genere con interessi da capogiro, non interessa perché
l’importante è possedere, possedere tanto e di più degli altri per poi sentirsi
superiori.
Perché acquistare un telefono cellulare da cento euro quando ce ne è uno
esattamente identico, con le stesse prestazioni ma con la scatola più bella che
ne costa mille? Perché prendere un cane al canile lasciando giusto un’offerta
quando si possono spendere migliaia e migliaia di euro per prenderne uno di
razza? Perché portarsi il pranzo da casa a lavoro o in università quando si può
andare ogni giorno a ristorante e fare le foto ai piatti elaborati e decorati
col cellulare costosissimo e pubblicarla su tre o quattro socialnetwork diversi?
Al ragionamento di Simmel, valido cento anni fa come oggi, manca solo un
elemento: l’apparire. Oggi se non pubblichiamo ogni sospiro che facciamo su un
diverso socialnetwork non esistiamo. Dobbiamo far vedere alle centinaia di
contatti che abbiamo, contatti dei
quali conosciamo realmente solo una piccolissima parte, cosa facciamo
continuamente. Cosa mangiamo, in quali ristoranti, in quali locali andiamo, dove
siamo in vacanza, il nostro ultimo acquisto e tutto ciò per avere consensi e
sentirci superiori e instillare negli altri il sentimento d’invidia.
L’uomo moderno si sente inadeguato, invidia e vuole creare invidia dipingendosi
come qualcosa di migliore e superiore e sminuendo continuamente chiunque altro
incontri.
Se la società del 1900 era ingenua e recuperabile perché iniziava ad affacciarsi
alla modernità, la società 2.0 è malata e avrebbe bisogno di cure serie e
immediate.
La prima cura dovrebbe essere, molto probabilmente, riscoprire i valori della
piccola comunità che l’uomo metropolitano ha perso. Ritornare ai piccoli
piaceri, ad esempio guardare un tramonto con i propri occhi e non attraverso lo
schermo di un cellulare. Guardare un panorama per noi stessi, perché è bello,
rilassante e non per condividerlo per una manciata di”like”.
L’uomo moderno non ama più ragionare, aspetta che qualcuno lo faccia per lui per
poi poter rielaborare sulla base delle ultime due parole captate, vere o false
che siano, e rielabora concetti sgrammaticati, privi di senso e pieni d’odio e
insulti.
E questo genera stress, che genera nervosismo e incapacità a relazionarsi.
L’uomo moderno ha mille amici su “Facebook”, settecento “followers” su
“Instagram” ma poi, in realtà, è solo. E questa, forse, è la peggiore malattia
dell’uomo 2.0.