No: solo sprechi
Dal 68,8% di perdite dell’acquedotto di Potenza
al 16,7 %
di Milano
I dissalatori sono l’oggetto misterioso
di Giuseppe Prunai
Più che la danza della pioggia ed altri inutili riti sciamanici occorrerebbe una
razionalizzazione dell’uso dell’acqua e l’eliminazione degli sprechi. Insomma
una politica dell’acqua che richiede investimenti produttivi anche a lungo
termine, indispensabili per uscire dalla situazione descritta da Salvatore
Buscema.
Partiamo dagli sprechi. I dati diffusi dall’ISTAT, in occasione della giornata
mondiale dell’acqua del 22 marzo scorso, parlano chiaro. Oltre un terzo del
prezioso liquido non arriva agli utenti a causa delle perdite degli acquedotti.
Realizzazioni con materiali di cattiva qualità e la scarsa o addirittura
inesistente manutenzione fanno sì che il 38,2 per cento dell’acqua vada
dispersa. Un quantitativo equivalente al fabbisogno di 10 milioni di persone! La
perdita giornaliera raggiunge circa 50 metri cubi per ogni chilometri di
condotta idrica.
Gli acquedotti colabrodo sono principalmente al Sud, afferma l’ISTAT: il 68,8 %
di perdite a Potenza, seguita da Campobasso con il 67,9, e poi Cagliari con il
59,3, il 54,6 a Palermo e Bari con il 52. Ma se il Sud piange, il Nord non ride.
Città più virtuosa Milano con il solo 16,7 % di perdite, Torino e Trento sono al
32,6, Venezia al 31,7, L’Aquila al
29,4, Bologna e Ancona al 27,9,
Genova al 27,4, Bolzano al 26,5, Aosta al 24,5.
Una situazione inaccettabile alla quale da decenni nessuno pone rimedio. E per
economizzare l’acqua si continuano a prendere iniziative ridicole come quella di
quel ministro del governo Berlusconi che invitava i cittadini a lavarsi i denti
con un bicchiere pieno di acqua per sciacquarsi la bocca e bagnare lo spazzolino
come se questo non andasse lavato sotto il getto dell’acqua dopo il passaggio su
una delle arcate dentarie prima di passare ad un'altra,
per evitare di depositare su
quest’ultima lo sporco tolto dalla prima. O come il provvedimento della sindaca
di Roma, Raggi, che ha fatto chiudere alcuni “nasoni”,
cioè le fontanelle pubbliche, il cui
getto continuo, oltre che a dar da bere
agli assetati, assicura il movimento nelle fogne evitando il ristagno dei
liquami, fonte di infezioni e una delle cause della risalita dei topi che si
tufferanno voraci e ghiotti sulla spazzatura
endemicamente abbandonata in superficie per le strade della capitale
d’Italia, la “caput mundi” dei latini, la “fogna mundi”, come la definì Giuseppe
Prezzolini. Se un giorno – ipotesi remota e irreale ma non del tutto peregrina –
dovesse scoppiare la peste i romani sapranno chi ringraziare.
Più
serio e preoccupante il provvedimento del presidente della Regione Lazio,
Zingaretti, che ha vietato ulteriori prelievi d’acqua dal lago di Bracciano il
cui livello si è notevolmente abbassato rischiando la catastrofe ambientale. Ma
anche questo è un rimedio temporaneo. Il vero problema, anche qui sono le
perdite degli acquedotti. L’acquedotto del lago di Bracciano spreca oltre la
metà del prezioso liquido a causa di condotte le cui manutenzione non è mai
stata fatta.
Ma uno dei problemi principali è la crescita a dismisura della capitale, della
concessione di licenze edilizie senza un’adeguata pianificazione dei servizi,
quello idrico in testa, seguito da quello della raccolta dei rifiuti, dai
collegamenti e dalle comunicazioni
Ma accanto agli sprechi dovuti ad
incuria ve ne sono altri dovuti ad una strana forma mentis. Parliamo delle acque
sotterranee, delle falde acquifere,
sulle quali poggiano alcune delle nostre città.
A Milano, con il trasferimento in aree periferiche delle industrie che un tempo
sorgevano a ridosso del centro storico, la falda acquifera, un tempo utilizzata
per usi industriali, è salita verso la superficie. La stima è fra i 10 e i 15
metri dal piano stradale in alcuni quartieri della città. Una situazione che
minaccia le metropolitane e mette a repentaglio le fondamenta dei palazzi. In
alcuni, le cantine sono ormai allagate e in numerosi condomini sono state messe
in funzione pompe idrovore per scaricare l’acqua di falda nella rete fognaria.
Alcuni anni fa, la Regione scaricò l’acqua di falda in alcune cave abbandonate
alla periferia della città, realizzando ameni laghetti circondati da un parco.
Più che una soluzione sembra una toppa
che non si sa per quanto tempo regga. Meglio sarebbe realizzare un acquedotto
alternativo per usi non potabili. Un’acqua che potrebbe benissimo essere
utilizzata per l’irrigazione in agricoltura, per usi industriali, dall’edilizia
al lavaggio delle auto, per far funzionare gli impianti igienici. Ma si
potrebbero anche trattare queste acque e renderle potabili.
Certo, occorrono degli investimenti che
nel medio e lungo periodo saranno meno onerosi di quanto costano le perdite.
A Milano, c’è il progetto di riapertura dei Navigli nei quali potrebbe
riversarsi gran parte dell’acqua di falda. Una rete
che, oltre a costituire un’attrazione turistica, potrebbe divenire una vera e
propria rete di comunicazione, come lo era in antico, tramite il Ticino e il
Lago Maggiore e il Po, fra la Svizzera, Milano e il Mare Adriatico e che
potrebbe anche essere sfruttata per l’irrigazione dei coltivi.
Un discorso a parte meritano le acque reflue, cioè gli scarichi delle nostre
attività biologiche. Non sempre vengono depurate e finiscono nei fiumi (e quindi
al mare) o nei campi producendo inquinamento e costituendo un serio pericolo per
la nostra salute. In molti condomini di nuova costruzione, in paesi esteri, ad
esempio in Svizzera, le acque reflue vengono depurate, deodorate e riossigenate
per poi essere reimpiegate per gli scarichi dei WC delle varie abitazioni.
L’Italia è stata sanzionata dall’Unione Europea per la mancanza o il cattivo
funzionamento dei depuratori: si parla di mezzo miliardo di euro all’anno per
dieci anni a partire dal 2016.
Ma dove l’acqua non c’è va fabbricata. Il procedimento si chiama dissalazione e
consiste nel depurare l’acqua di mare del suo contenuto salino.
Ci sono più tipi di dissalatori, ma
la tecnologia vincente è quella dell’osmosi inversa costituita da una serie di
membrane di polimeri che lascia filtrare le molecole di acqua trattenendo la
componente salina. L’acqua prodotta in questo modo è praticamente acqua
distillata che verrà poi addizionata di quei sali e dell’ossigeno e degli altri
gas normalmente presenti nell’acqua
sorgiva. Il paese leader nella dissalazione è Israele. L’impianto che rifornisce
Tel Aviv produce acqua al costo di 50
centesimi di euro al metro cubo il che vuol dire un costo di 500-600 dollari
all’anno per nucleo familiare.
In
commercio si trovano dissalatori di più tipi. Ve ne sono di portatili, adatti ad
una barca che così diventa autosufficiente dal punto di vista idrico. Di poco
più grandi, alimentati ad energia solare, adatti alle case isolate non raggiunte
da un acquedotto. Poi ve ne sono di adatti alle grandi navi e quelli che possono
alimentare interi quartieri. Il costo? Dai duemila ai diecimila euro.
Ovviamente, i grandi dissalatori costano di più. Quello in costruzione a San
Diego, in California, sarà il più grande del mondo e costerà un miliardo di
dollari, Entrerà in funzione il prossimo anno e produrrà 204 milioni di litri di
acqua potabile al giorno. Il dissalatore sarà pronto il prossimo anno. Vi
lavorano a tempo pieno 500 operai.
Attualmente sono in funzione, in tutto il mondo, 16 mila dissalatori. In Italia,
l’acqua dissalata rappresenta solo lo 0,1 % del prelievo totale da varie
sorgenti per un ammontare di 13.619 milioni di metri cubi. Dopo di noi solo i
paesi più poveri di quelli in via di sviluppo.