che volevano mutare il fascismo
di Mario Talli
Ruggero Zangrandi non ebbe fortuna in vita e non l'ha avuta neppure dopo
che è morto, quasi cinquant'annni orsono. Il tentativo che negli anni Trenta
egli e numerosi altri giovani fecero di riformare il fascismo dall'interno aveva
scarse possibilità di riuscita, quindi parlare di fallimento non sarebbe il
termine giusto, tuttavia non sarebbe parso azzardato supporre che quel tentativo
suscitasse interesse quando fu raccontato con abbondanza di dettagli dagli
stessi protagonisti poco dopo la fine della guerra
con l'aggiunta di nuovi ragguagli e documenti negli anni successivi.
Invece se ne parlò poco allora, quando Zangrandi, una prima volta nel '47 con
Einaudi e una seconda nel '62 con
Feltrinelli (“Il lungo viaggio attraverso il fascismo”) rivelò il crescente
disagio suo e di altri giovani in camicia nera verso i postulati e i riti del
fascismo e i tentativi che fecero per introdurre dei correttivi. Tale
disinteresse da parte degli storici di ogni tendenza e caratura permane
tutt'oggi e francamente non se ne
capisce la ragione. Perchè il fatto che nel corso di un decennio, negli anni
Trenta, gli anni in cui il regime era al colmo del suo fulgore, in Italia e
all'estero,alcune centinaia di giovani fascisti cercassero di correggerne alcuni
caratteri mediante incontri, riunioni, pubblicazioni varie appare oggettivamente
un fatto di grande interesse storico e non solo.
Tutto cominciò quando Zangrandi frequentava il Ginnasio a Roma, la stessa
scuola del figlio maggiore del Duce,
Vittorio . Entrambi i giovani provenivano da Milano e forse fu anche questo
particolare a favorire la loro amicizia. Perché di vera e propria amicizia si
trattò. I due erano spesso insieme
anche oltre la scuola, in città o a Villa Torlonia, la residenza dei Mussolini
(foto a destra: Benito Mussolini). Zangrandi descrive Vittorio Mussolini
come “un ragazzo buono, leale, semplice, un po' indolente.” Le manifestazioni di
servilismo di cui era oggetto perché figlio di tanto padre lo avevano portato –
secondo Zangrandi – “a concepire per gli uomini un disprezzo che, a differenza
di quello del padre, era indulgente e bonario.” La sua indulgenza non doveva
tuttavia arrivare al punto da considerare gli uomini, fascisti compresi,
capaci di azioni commendevoli. Racconta infatti Zangrandi che un giorno
che avevano marinato la scuola e passeggiavano a Villa Borghese, gli aveva detto
in modo abbastanza accalorato ciò
che secondo lui nel fascismo non andava e quali cambiamenti
sarebbero stati necessari. L'amico lo ascoltò “serio e imbronciato”,
quindi “in un momento di abbandono che gelò ogni mio entusiasmo, mi disse, breve
e secco: “E' inutile.Il fascismo è tutto un bluff: papà non è riuscito a far
niente di quello che voleva; gli italiani sono fascisti per vigliaccheria e
della rivoluzione se ne fregano.”
Una
risposta così secca sconcertò Zangrandi che nonostante le sue molte e
circostanziate riserve verso i gerarchi fascisti, le loro idee e i loro
comportamenti, non aveva ancora perso la speranza di un qualche compimento della
rivoluzione fascista. I rapporti tra i due giovani tuttavia non ne risentirono,
continuarono come prima e anzi Zangrandi ad un certo punto riuscì ad associare
anche Vittorio Mussolini ad alcune iniziative che nelle sue intenzioni e in
quelle dei suoi amici dovevano rinvigorire la istanze rivoluzionarie del
fascismo delle origini. Certo, è facile oggi considerare per quel che è e cioè
un'autentica balla il presunto carattere rivoluzionario del fascismo, anche se
si spoglia il concetto di rivoluzione dalle finalità che le sono più proprie, il
rivolgimento o per lo meno la modifica in senso più giusto ed egualitario degli
assetti sociali. Ma chi fu giovane allora, sebbene animato dalle migliori
intenzioni di questo mondo, non possedeva gli strumenti per un giudizio più
veritiero.
Ruggero
Zangrandi e gli altri giovani che collaborarono con lui continuarono comunque
con immutato impegno nella
loro
azione volta a modificare alcuni aspetti sostanziali del fascismo dall'interno,
sopratutto per quanto riguardava la politica sociale, ma non solo. (foto a
sinistra: Vittorio Mussolini). E lo fecero utilizzando a modo loro tutti gli
strumenti che il regime aveva messo in campo per conquistare la gioventù,
sopratutto quella universitaria, come ad esempio i Littoriali, nonché ricorrendo
(quando la loro azione assunse
contenuti tali suscitare più di un sospetto) alla ricerca di coperture di comodo
fin nei ranghi dei gerarchi. Per un tale ruolo Zangrandi e gli altri pensarono
ad un certo punto addirittura a Galeazzo Ciano, il genero del duce, di cui era
nota la vivacità intellettuale abbinata a una certa spregiudicatezza di
carattere. Tra il luglio del '37 e il febbraio del '38, Zangrandi incontrò Ciano
una decina di volte. “La prima volta che mi recai da lui mi disse subito di aver
sentito parlare di me in casa Mussolini – racconta l'ex giovane in camicia nera
– e che gli garbava avessi fama di ribelle. Poi mi parlò male del GUF (Gruppo
universitario fascista – n.d.r.), scuola di conformismo e di gerarchi mezza
sega, arrivisti e inetti. Dei Littoriali mi disse invece gran bene e per gli
stessi motivi per cui anche a noi erano piaciuti...”
I colloqui con Ciano non
produssero in ogni modo alcun risultato. La situazione politica era intanto
mutata. Gli ultimi anni avevano portato importanti cambiamenti. Prima la
conquista dell'Impero, poi l'appoggio politico e militare all'intervento
reazionario franchista in Spagna, quindi le intese con la Germania hitleriana
fino a quella conclusiva che trascinò anche il nostro Paese nell'inferno della
seconda guerra mondiale a fianco dell'esercito nazista. Praticamente la
situazione era cambiata nel senso opposto rispetto agli auspici di quei giovani
fascisti inquieti. Ciò non poteva non produrre effetti anche sul loro modo di
pensare e di agire ed infatti da fascisti critici divennero quasi tutti
antifascisti più o meno dichiarati, pagandone naturalmente le conseguenze, non
soltanto come tormento interiore. Perché intanto era arrivata la guerra ed era
cominciata la litania dei morti e dei dispersi, anche fra i loro amici alcuni
dei quali o erano partiti volontari per il fronte o erano stati richiamati.
Altri infine, come lo stesso Zangrandi, erano stati nel frattempo arrestati per
attività antifasciste e successivamente deportati in Germania.
Chi scrive ha
conosciuto molto bene Ruggero Zangrandi avendo lavorato per anni nello stesso
giornale. Oltre a
rievocare l'azione politica svolta durante il fascismo nel tentativo illusorio
di mutarne la faccia e la natura, negli anni Cinquanta e Sessanta, egli si
dedicò con la passione civile che era un suo elemento costitutivo a scrivere
articoli e libri di denuncia contro quegli alti gradi dell'esercito che dopo
aver convissuto col fascismo non seppero o non vollero opporsi all'occupazione
tedesca dell'Italia dopo la firma dell'armistizio. In qualche modo, mi pare di
aver capito, era come se Zangrandi volesse riprendere e continuare, in uno
scenario completamente diverso, l'azione condotta negli anni giovanili nei
confronti dei detentori del potere di allora, alcuni dei quali erano abbastanza
agevolmente riusciti a conservarlo anche in una situazione politica mente
mutata.
Ma oltre a questi
sentimenti, mi pare di aver colto in lui un'inquietudine di natura diversa.
L'inquietudine di chi non si dà pace per un'ingiustizia subita. Il fatto, cioè,
che il tentativo che lui e gli altri giovani in camicia nera fecero per cambiare
la natura del fascismo non fosse stato considerato nel modo dovuto negli anni
del dopoguerra in sede di ricostruzione storica del ventennio mussoliniano. Come
se riconoscere a quei giovani quanto a loro sarebbe spettato, nulla di più,
nulla di meno, fosse scomodo e comunque poco opportuno.