Una ricerca di professionisti dell'Ausl Romagna e dell'Irst di Meldola
in collaborazione con l'Università di Bologna- Campus di Ravenna
di Tiziana Rambelli *
Un’importante ricerca scientifica è stata pubblicata pochi giorni fa
sulla prestigiosa rivista internazionale
PLOS ONE dal titolo “CT Scan of thirteen natural mummies dating back to the
XVI-XVIII centuries: an emerging tool to investigate living conditions and
disease in History”, frutto della ormai collaudata collaborazione tra i
Laboratori di Antropologia e DNA Antico dell’Università di Bologna-Campus di
Ravenna, le UO di Radiologia dell’Ospedale G.B. Morgagni di Forlì, Santa Maria
delle Croci di Ravenna, IRCCS IRST di Meldola e il Dipartimento delle Malattie
dell’Apparato Respiratorio e del Torace della Romagna . Lo studio, che ha come
protagoniste le famose mummie di Roccapelago, è il frutto di un’efficace analisi
paleopatologica multidisciplinare, che ha visto lavorare a stretto contatto
Antropologi Fisici e Medici dalle svariate specialità.
“Questo tipo di studi su antichi resti umani mummificati, richiedono una serie
di valutazioni di natura superspecialistica” afferma il ricercatore Mirko
Traversari, firmatario dello studio e coordinatore del “Roccapelago Mummies
Projet”,.
Le mummie di Roccapelago, singolare ritrovamento archeologico avvenuto tra il
dicembre 2010 e il marzo 2011 nel corso dei lavori di ristrutturazione della
Chiesa della Conversione di San Paolo a Roccapelago di Pievepelago,
sull'Appennino Modenese. Qui gli archeologi hanno fatto una scoperta
eccezionale: una fossa comune con 281 inumati tra adulti, anziani, infanti e
settimini, di cui circa 60 perfettamente mummificati. Donne, uomini e bambini,
presumibilmente l'intera collettività vissuta a Roccapelago tra il XVI e il
XVIII secolo, abiti, calze, sudari, effetti personali, oggetti devozionali,
crocifissi, rosari, una gran quantità di tessuti, pizzi e cuffie che avvolgevano
i defunti e molta fauna cadaverica (larve e topi), deceduta d'inedia o per i
miasmi della decomposizione. Non si è trattato, come accade di solito, della
mummificazione volontaria di un preciso gruppo sociale (monaci, beati o membri
di famiglie illustri che siano) ma della conservazione naturale di un'intera
comunità, consentita dal microclima particolare dell'ambiente, caratterizzato da
scarsa umidità e intensa aerazione.
Non solo un ritrovamento unico per l'Italia settentrionale ma un'autentica
miniera di informazioni, in virtù della rara opportunità di studiare sia i resti
umani che gli indumenti e i tanti oggetti d'uso quotidiano, ricostruendo quasi
tre secoli di vita contadina, credenze, tradizioni, usanze e abitudini di
quell'antica comunità montana.
Lo studio pubblicato su Plos One ha interessato 13 mummie, sette femmine e sei
maschi, con un'età compresa tra i 20 e i 60 anni. Di queste si è riuscito a
ricostruire le condizioni di vita, di lavoro, il regime alimentare e la causa di
morte.
Ma che cosa possono svelare questi resti ai medici di oggi?
“Al medico - conclude Traversari - viene richiesto di prendere in considerazione
fenomeni degenerativi o patologici del corpo umano, che ormai raramente possono
essere osservati durante la normale attività ospedaliera; all’antropologo è
invece richiesta una valutazione del dato multi-documentale, che sia finalizzato
alla ricostruzione del quotidiano di queste antiche persone”
*Tiziana Rambelli è dirigente presso UOC Sviluppo Sistemi Relazionali Ausl
Romagna - ambito di Forlì - Coordinatrice Ausl Romagna attività culturali e
sviluppo patrimonio storico - artistico aziendale