Nelle lettere dal carcere ve ne sono alcune, indirizzate ai figli, nelle quali
il leader comunista racconta delle favole – Il cruccio di non poter educare
Delio e Giuliana di persona – L’esortazione allo studio della storia e la
sensibilità ai problemi dell’ambiente
di Silvia Talli
“Sento con molto pungente rammarico di essere stato privato della partecipazione
allo sviluppo della personalità e della vita
dei due bambini; eppure io diventavo subito amico dei bambini e riuscivo
ad interessarli”.
Con
queste parole Antonio Gramsci si rivolgeva alla moglie Giulia Schucht,
conosciuta durante il viaggio che nel 1922 lo condusse in Russia come capo della
delegazione italiana al IV Congresso dell’Internazionale; i due bambini a cui fa
riferimento nella lettera sono i figli della coppia: Delio e Giuliano. Gramsci
scriveva dal carcere barese di Turi dove doveva scontare venti anni e quattro
mesi di reclusione quale pena inflittagli dal Tribunale Speciale. Dal suo
arresto, avvenuto nel 1926 all’indomani dell’approvazione delle leggi
eccezionali fasciste, egli aveva già scontato la condanna a cinque anni di
confino a Ustica. Durante la detenzione, non scrisse solo alla moglie ma anche
alla madre, alla cognata Tatiana e ai due figli. Proprio a questi ultimi
indirizzò una serie di lettere in cui sono inserite brevi favole oppure racconti
di episodi relativi alla propria infanzia; per i figli ed i nipoti poi, tradusse
anche alcune celebri fiabe dei fratelli Grimm come Biancaneve e i sette nani,
Cenerentola, La bella addormentata nel bosco e molte altre meno conosciute ma la
censura fascista impedì che tale opera di traduzione uscisse dagli angusti
locali del carcere. Questo materiale è stato raccolto in un volume pubblicato
recentemente dalle Edizioni Clichy: Antonio Gramsci “Fiabe”. In esso è contenuta
quasi per intero la sua produzione per l’infanzia a cui sono unite le raccolte
pubblicate postume con i titoli L’albero del riccio e Favole di libertà, che
comprendono le traduzioni dalle Fiabe dei Fratelli Grimm, gli Apologhi e
Raccontini torinesi ed infine i Raccontini di Ghilarza e del carcere.
Il volume ci consegna un Gramsci diverso (foto ma destra), “privato”, che entra
in relazione con il suo universo familiare e quindi con la propria dimensione
più intima. Tuttavia, anche questo aspetto poco conosciuto del politico ed
intellettuale sardo, permette di rinvenire i valori che ispirarono la sua azione
nonché i tratti salienti della sua personalità; del resto la privazione della
libertà se per un verso allontana dal mondo esterno, per l’altro dilata i
confini di quello interiore e quasi sempre accorcia la distanza fra passato e
presente dell’esistenza.
Dalle pagine del libro emerge il marito, il figlio ma innanzitutto il padre che,
costretto dalla lontananza forzata a non veder crescere i propri figli, da un
lato cerca di farsi conoscere da questi e far sentire loro
l’affetto paterno, dall’altro avverte quanto mai forte, quasi urgente, il
bisogno di prepararli alla vita o, per meglio dire, di “attrezzarli” il più
possibile. Ecco, dunque, che nelle lettere scritte a Delio e Giuliano sono
frequenti le esortazioni circa la necessità di avere metodo e disciplina nonché
di lasciare tempo alla riflessione e allo sviluppo di un atteggiamento critico.
Per questo, da padre, richiamava più volte l’attenzione sull’importanza di avere
pazienza e di riflettere, senza agire con superficialità o con approssimazione e
soprattutto senza cadere nella tentazione della fretta quasi a voler ricordare
loro che il tempo doveva essere usato in modo fruttuoso e con rispetto tanto era
prezioso. Nella sua veste “pedagogica” consegnataci da queste pagine, Gramsci
insisteva anche sull’importanza di avere degli obbiettivi e che ogni azione
fosse indirizzata verso una meta e un fine concreto da raggiungere affinché le
cose non fossero lasciate al caso, ma governate. Emerge, in sostanza, l’intento
di educare i figli alla responsabilità, ad avere appunto il governo delle cose
evitando di cadere in atteggiamenti passivi o lamentosi che potessero portarli a
“guaire come cagnolini da latte” quando invece occorreva “affrontare gli
avvenimenti con coraggio e con tranquillità”. Non mancavano, inoltre, consigli
di lettura ed in particolare il richiamo al valore della storia “perché –
scriveva a Delio- riguarda gli
uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è
possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono fra loro in società
e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni
altra cosa”. A tal proposito Gramsci sottolineava
l’ importanza di studiare la “storia
reale” ossia “quella che si può studiare solo sulla base di documenti ben
precisi e concreti”; da qui l’invito rivolto in un’altra lettera a Delio:
“studia solo le cose concrete”.
Ma le esortazioni e i richiami si alternavano ad espressioni piene di tenerezza.
Probabilmente egli stesso si sentiva diviso fra il bisogno di guidarli in una
maturazione che, viste le circostanze, si imponeva come urgente e quanto mai
necessaria ed il timore che i suoi inviti potessero aggiungere fra lui ed i
figli un’ulteriore distanza peggiore di quella fisica; o almeno così sembra
emergere da queste parole con cui si rivolgeva al figlio Giuliano dopo averlo
esortato ad essere più ordinato e meno frettoloso nello scrivere: “Caro
Giuliano, non prendertela, scrivi e rafforzerai i tuoi giudizi. Mi dispiace di
non poter discutere con te a viva voce. Non credere che io sia molto pedante, mi
piacerebbe ridere e scherzare con te e con Delio di tante cose che interessavano
molto anche me quando ero un ragazzo”.
Il richiamo alla sua infanzia è costante e assume forma attraverso i racconti
che esordiscono quasi sempre proprio con quell’espressione: “quando ero ragazzo”
e altre dello stesso tenore. Ciò serviva per accorciare le distanze con chi era
troppo lontano ma anche per tener ben strette a sé le proprie radici e con esse
l’identità che proprio in quella fase della vita riceve i primi segni distintivi
e per lo più indelebili: “Io da ragazzo ho allevato molti uccelli – scrive
Gramsci - e anche altri animali: falchi, barbagianni, cuculi, gazze, cornacchie,
cardellini, canarini, fringuelli, allodole ecc. ecc.; ho allevato una serpicina,
una donnola, delle tartarughe. Ecco dunque come ho visto i ricci fare la
raccolta delle mele” e da qui prende il via la deliziosa fiaba dell’Albero del
riccio in cui un’intera famiglia di ricci si ingegna per procurarsi le mele di
cui ha bisogno.
Gli animali, per l’appunto, sono i protagonisti delle fiabe e dei racconti di
Gramsci il quale, per questa
via,
compie anche un viaggio tutto personale a ritroso nel tempo e nello spazio
ritornando con la mente ed il cuore alla sua infanzia ed inevitabilmente alla
propria terra: la Sardegna .
Terra amata, quella sarda, e nello stesso tempo dura ma capace comunque di
stimolare e arricchire l’universo emotivo di Antonio bambino costituendo
sicuramente una risorsa per fronteggiare la fatica del lavoro che egli conobbe
molto presto. Della Sardegna ci viene restituita una dimensione arcana che
aleggia costantemente nelle pagine del libro.
Gli animali che popolano le storie non sono descritti attraverso immagini
edulcorate che li possano ingentilire: si pensi, per esempio, al misterioso
animale simile ad una serpe con quattro piccole zampe e dall’aspetto repellente
detto scurzone; spesso, inoltre, sono colti nella loro reciproca lotta per la
sopravvivenza. Non può nemmeno essere tralasciata l’immagine del cavallo che la
domenica o nei giorni di festa, come spesso accadeva in Sardegna, aveva le
orecchie e la coda finte che gli metteva il padrone perché quelle vere erano
state mangiate dalla volpe.
La dimensione fantastica, laddove è presente, rimanda pur sempre ad un messaggio
concreto, capace di stupire per la sua modernità e per il suo essere capace di
precorrere i tempi: è ciò che avviene nella favola “Il topo e la montagna” in
cui un topo dopo un “sublime dialogo”, quasi una trattativa, con la montagna che
è stata disboscata dagli speculatori a tal punto da “mostrare le sue ossa senza
terra”, elabora “un vero e proprio piano di lavoro organico e adatto ad un paese
rovinato dal disboscamento” che dovrà essere portato a termine da un bambino una
volta che sarà cresciuto.
E’ un messaggio che, mentre rivela una moderna sensibilità verso l’ambiente, di
certo prospetta la possibilità di un futuro migliore, affidato a chi ci sarà e
che per questo è chiamato ad attivarsi con senso di responsabilità; si comprende
allora perché Gramsci si raccomandava con forza alla moglie Giulia di raccontare
questa novella ai figli.
Talora gli animali sembrano sfidare gli uomini e quasi competere con loro
nell’intento di non soccombere e non solo dal punto di vista fisico rivelandosi
nella loro dignitosa autonomia di esseri viventi anche capaci di ridimensionare
il naturale istinto dell’uomo a padroneggiarli o comunque a dominarli. Basti
pensare al racconto del suo primo incontro con una grossa volpe durante una
passeggiata con il fratellino: Questa, tranquillamente seduta sotto un albero,
“con la bella coda eretta come una bandiera, non si spaventò per nulla; ci
mostrava i denti, ma sembrava che ridesse, non che minacciasse. Noi bambini
eravamo in collera che la volpe non avesse paura di noi; proprio non aveva
paura. Le tirammo dei sassi, ma essa si scostava appena e poi ricominciava a
guardarci beffarda e sorniona. Ci mettevamo dei bastoni alla spalla e facevamo
tutti insieme: bum! Ma la volpe ci mostrava i denti senza scomodarsi troppo”.
Fra il Gramsci bambino ed il Gramsci adulto sembra non esserci soluzione di
continuità per ciò che riguarda la capacità percettiva che, attraverso i canali
dell’immaginazione e delle emozioni, permette di cogliere il tanto nel poco che
è intorno e di trarne un afflato vitale da cui ricevere forza. Ecco, dunque, che
in un paio di lettere alla cognata Tania parla della sua rosa che dopo aver
preso “una terribile insolazione” che le ha conferito “un aspetto triste e
desolato”, finalmente “si è completamente ravvivata e ha cominciato a mettere
occhi e poi foglie” con il solstizio d’estate da lui atteso con ansia: “Ora che
la terra si inchina al sole – scrive - sono più contento; il ciclo delle
stagioni legato ai solstizi e agli equinozi lo sento come carne della mia
carne”. Oppure si pensi alla storia dei suoi due passerotti che aveva nella
cella e che ancora una volta dicono molto di lui. Essi erano nettamente diversi
tra loro ma non tanto nell’aspetto esteriore quanto nel modo di essere e di
comportarsi quasi non si trattasse di semplici animali: “l’uno fiero e di grande
vivacità”, mentre l’altro "modestissimo e di animo quasi servile e senza
iniziativa”; il primo “divenne subito padrone della cella”. Scrive ancora
Gramsci: “Ciò che mi piaceva di questo passero è che non voleva essere toccato,
si era addomesticato ma senza permettere confidenze”. Solo dopo un po’ di tempo
questo cominciò a stargli sempre vicino, guardandolo “attentamente” tuttavia
“non si lasciò mai prendere in mano senza rivoltarsi e cercare subito di
scappare”. Ad esso si contrapponeva ancora una volta l’altro “di una domesticità
nauseante; vuole essere imbeccato, quantunque mangi da sé benissimo”.