sugli orrori del passato
Nel dopo guerra si è preferito far dimenticare le atrocità del nazismo – In
pochi ne parlano e i giovani ignorano la storia recente del loro paese
di Magali Prunai
Il silenzio, si sa, è un’arma micidiale, più pericoloso di un fucile, più
disastroso di una guerra. “I potenti” lo usano quando devono ottenere qualcosa
di comodo per loro, per educare, ammaestrare, ammansire una nazione e far
dimenticare orrori, tragedie. I segreti di Stato, di cui ogni tanto ci
ricordiamo e per i quali chiediamo chiarezza, altro non sono che un silenzio di
Stato. Indagare in questa marea di non detto, di taciuto, di lasciato intendere
è come decidere di affrontare un labirinto senza bussola, senza un filo che ci
aiuti a trovare la via, vuol dire rischiare di perdersi nel labirinto del
silenzio.
E il silenzio è l’arma che la Germania del dopo guerra, del dopo Norimberga, ha
deciso di adottare per
dimenticare,
per andare avanti, per ricrearsi un’anima dopo anni di barbarie e campi di
sterminio. La Germania ovest alla fine degli anni ‘50 inizia a conoscere un
certo benessere, i giovani si divertono, mangiano, bevono e ascoltano musica
finché un giorno un pittore non riconosce fra il personale docente di una scuola
una SS di Auschwitz. I tedeschi più giovani non sanno cosa sia Auschwitz, troppo
piccoli al tempo di Norimberga per ricordare tutto o nati dopo. Della storia
della loro Nazione sanno solo che c’era un pazzo, Hitler, cui tutti obbedivano.
Tutti erano nazisti, perché eseguivano degli ordini. E un giorno uno di questi
giovani, un procuratore di Francoforte sul Meno, decide che deve sapere. Che
questo silenzio deve finire e che i colpevoli di atrocità indicibili, che a
guerra finita sono tornati a casa, devono andare in galera. La strada è lunga, 5
anni di ricerche, le prese in giro dei colleghi, le ostilità, le minacce per
finalmente poter dire che gli aguzzini di Auschwitz non eseguivano semplicemente
ordini, ma commettevano atti di pura e semplice crudeltà, atti disumani di
propria iniziativa.
Cinque anni di ricerche per scoprire che chi era stato un macellaio ad Auschwitz
negli anni ’60 aveva in custodia l’istruzione di minori, insegnando chissà quali
valori, faceva il fornaio e vendeva il pane, quel pane che un prigioniero di un
qualsiasi campo di sterminio sognava ogni notte, sperando che il sogno fosse la
realtà e la realtà solo un incubo che presto sarebbe finito, chi era dentista,
chi era arrivato a ricoprire alte cariche in aziende.
Il processo di Francoforte, il secondo processo di Auschwitz, durò quasi due
anni. Dei 22 ufficiali imputati 17 furono condannati, 6 all’ergastolo. Si
affermava così un principio importantissimo, ovvero che uccidere in tempo di
guerra, durante un combattimento e torturare delle persone inermi, massacrarle,
condannarle alle camere a gas non era la stessa cosa. Se all’inizio delle
indagini si obiettava che non si può condannare un soldato per aver eseguito gli
ordini imposti dall’alto, alla conclusione del processo la Germania ha
riscoperto i suoi orrori e non li ha più scordati.
Purtroppo il revisionismo è sempre in agguato, i superstiti per ragioni
anagrafiche sono sempre meno e sempre meno, in un’epoca di precarietà e di tanta
voglia di svago come nella Germania della ripresa economica, si pensa e si
ricorda il nostro passato. Ma, soprattutto, non si ragiona più su di esso. Si
semplifica tutto, i libri scolastici pur di essere sintetici arrivano ad
omettere fatti storici rilevanti. Si odia il diverso, si odia l’altro per la
religione, per il colore di pelle. Si rimpiange un tempo che non si è vissuto,
di cui si è solo letto e si è sentito parlare attraverso una lente distorta, che
rimaneggia la realtà e la imprime a forza nelle menti più deboli e ignoranti.
Forse nel 2016, in questa era strana in cui abbreviamo gli anni con dei numeri
che ci sembrano buffi, come ’16, perché ci riportano ai nostri studi di scuola e
agli inizi del ‘900, sarebbe necessario un terzo processo di Auschwitz.