La politica dell’oblio e del riciclo
Divagazione sui criminali nazisti
e sul lager di Dachau
di Giuseppe Prunai
Anche lo stato italiano impose l’oblio.
Di più: riciclò nelle strutture
amministrative e dirigenziali, nelle forze armate e nelle forze dell’ordine
della repubblica, nata dalla Resistenza, funzionari e dirigenti già servi del
regime fascista. L’epurazione fu una barzelletta. “Buono per dopo” dicevano i
nostri governanti democristiani. E il dopo voleva dire contrasto alla diffusione
del comunismo. Le parole antifascismo, partigiano, deportato e IMI (cioè quei
militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre che rifiutarono di
aderire alla repubblica sociale) facevano venire l’orticaria ai governanti di
allora. In questo clima che furono possibili i cosiddetti “armadi della
vergogna” dove furono nascoste inchieste svolte nell’immediato dopoguerra sulle
stragi compiute dai nazisti come quella di Sant’Anna di Stazzema. Desta
meraviglia se in questo clima di rimozione Walter Reder, responsabile
dell’eccidio di Marzabotto, sia stato condannato all’ergastolo. Ma la meraviglia
dura pochi anni per lasciare spazio allo sconcerto: nel 1980 un tribunale
militare ne consentì la libertà condizionale perché si trattava – affermarono i
giudici – di un valoroso soldato e la sua criminalità era stato solo un fatto
occasionale dovuto allo stato d’animo dell’imputato, esasperato dalla guerra.
Cinque anni più tardi, il Governo Craxi ne decise la scarcerazione.
E c’è da meravigliarsi se Herbert Kappler, uno dei boia delle Fosse Ardeatine e
responsabile del rastrellamento del quartiere romano del Quadraro e del Ghetto
di Roma, condannato all’ergastolo nel 1947, fu fatto fuggire nel 1977
dall’Ospedale Militare del Celio? Si dice (ma è tutto da verificare)
che dietro all’episodio vi sia una laboriosa contrattazione italo-tedesca
relativa alla concessione di un prestito. Insomma, il governo italiano
di allora lo avrebbe venduto.
E c’è da meravigliarsi se l’altro boia delle Ardeatine, Herick Priebke, abbia
potuto vivere indisturbato, prima in Alto Adige per una decina di anni e
poi in Argentina? E una volta catturato in Argentina e processato in Italia nel
1996 dal tribunale militare di Roma sia stato assolto per prescrizione? La
sentenza fu comunque annullata dalla Cassazione che ordinò un nuovo processo al
termine del quale Priebke fu condannato all’ergastolo.
Tre episodi emblematici (ma altri se ne potrebbero citare) che si inquadrano in
quella “notte della repubblica” culminata negli anni di piombo e in tanti altri
inspiegabili episodi della vita nazionale.
Ma torniamo alla Germania, alla Germania Ovest, alla Repubblica federale tedesca
contrapposta alla Germania Est, la Repubblica democratica tedesca.
Il racconto è quello di un giovane cronista che nell’ottobre del 1963, a Monaco
di Baviera per assistere all’ Oktoberfest, ebbe idea di visitare il lager di
Dachau. Semplice, penserete. Basta percorrere la Dacahuerstrasse fino
all’omonima cittadina e poi chiedere o affidarsi alla segnaletica stradale. In
effetti, fu semplice fino alla cittadina di Dachau ma quando cominciai a
chiedere dove fosse il lager le cose si misero male. Prima persona a cui mi
rivolsi, il postino. Età fra i 45 e i 50 anni, mutilato di una mano, mi guardò
storto, disse uno “scheisser” (stronzo) a mezza voce e mi indicò un cartello
stradale illeggibile. Secondo
incontro, quello con il custode del museo aeronautico Messerschmidt che non
rispose. La cameriera di una birreria, nel suo italiano imparato a Rimini, mi
chiese candidamente: ”Lager? Cos’è?” Finalmente, una vecchia grassa e baffuta
che guidava un trattore mi spiegò in un francese altrettanto cattivo che il mio
tedesco di seguire la segnaletica militare americana che indicava la strada per
il “Memorial Camp” che inizialmente avevo scambiato per un cimitero di guerra.
La vecchia non aveva peli sulla lingua e con quel
suo francese che non era francese mi spiegò che nella zona non volevano
sentir parlare di lager. I più giovani non sapevano che li c’era stato un campo
di sterminio, gli altri ne negavano l’esistenza, lo avevano archiviato, relegato
nell’angolo più remoto della memoria anche se qualcuno grazie al lavoro coatto
dei prigionieri aveva fatto i soldi. “Scheisser” sbottò la vecchia e dette gas
al motore.
Finalmente, dopo aver percorso una stradina sterrata, arrivai al lager. “Museum”
indicava una freccia e
mi
ritrovai in uno stanzone freddo e umido. Alle pareti delle teche di vetro con le
uniformi dei prigionieri ed i loro effetti personali (foto a sinistra): abiti
civili, scarpe, occhiali, dentiere, matite, qualche blocchetto per appunti, un
portafoglio. Al centro le forche per la “soluzione finale” e poi il Krematorium.
“Tu passerai per il camino” scriverà più tardi Vincenzo Pappalettera, rievocando
la propria terribile esperienza a Mauthausen.
A quasi 50 anni di distanza da quella visita ho ancora i brividi ripensando a
quello che vidi e quando guardo le foto che scattai in quell’occasione.
Il campo di concentramento di Dachau fu aperto nel 1933 e già nel maggio di
quell’anno ospitava 1.200 prigionieri politici di Monaco, di Norimberga, di
Augusta e di altre città bavaresi. Si trattava, in gran parte, di socialisti e
comunisti, di cattolici antinazisti e di molti intellettuali ebrei.
Fu alla fine del 1933 che cominciò il terrore: il campo passò in mano
alle SS e cominciarono, allora, i grandi crimini. Un minuzioso rapporto sugli
avvenimenti all’interno del lager è contenuto nel libro “L’inferno a
Dachau” scritto dall’onorevole della
Dieta del Reich, Hans Belmer, che a fine anno riuscì ad evadere. Altre
testimonianze, rese soprattutto al Processo di Norimberga, sono contenute nel
libro “Il flagello della svastica” di Lord Russel.
C’è un episodio narrato da alcuni superstiti al momento della liberazione che
testimonia la fede incrollabile dei prigionieri. Nel 1944, ad un anno dalla
liberazione, in una baracca del campo si svolse una cerimonia clandestina. Il
vescovo di Clermont-Ferrand, prigioniero nel campo, ordinava sacerdote il
diacono Kars Jesner, della diocesi di Münster, gravemente ammalato, ormai senza
speranza. La stola e i paramenti furono approntati dai prigionieri che
riuscirono a sottrarre stoffe ai magazzini. Il camice e la pianeta furono
recuperati fra le immondizie. Chi era condannato ai lavori forzati nelle
officine Messerschmidt fabbricò gli
anelli e la croce. Gli olii sacri furono recati di nascosto dal cardinale
Faulhaber, di Monaco. Una cerimonia clandestina che ha il sapore di una beffa
giocata a Hitler, alle SS, a tutti i nazisti impegnati a negare Dio e a
perseguire l’atroce religione della morte.