Quando Fabiani e Bilenchi

volevano l'unione dei progressisti

 

di Mario Talli

 

E quando in Palazzo

vecchio 

bello come un'agave di

                           pietra,

salii i gradini consunti,

attraversai le antiche stanze,

e uscì a ricevermi

un operaio,

capo della città del vecchio

                                  fiume,

delle case tagliate come in             

                     pietra di luna,

io non me ne sorpresi:

la maestà del popolo

governava.

 

                                                                     

     Il titolo della poesia è “La città”. Pablo Neruda (foto in alto) la scrisse dopo una prima visita a  Firenze nel '51. La città lo aveva affascinato, tanto è vero che vi tornò anche successivamente, quando nel suo paese, il Cile, si era insediata la dittatura. Durante il suo primo soggiorno il poeta incontrò  vari personaggi tra i più rappresentativi, tra questi il sindaco da poco eletto, il comunista Mario Fabiani (foto a sinistra). Egli non era esattamente un operaio, ma quasi. In ogni caso fino a poco tempo prima si era impegnato a fondo contro il fascismo e in difesa dei lavoratori, subendo espatri forzati e circa dieci anni di carcere. Dunque, la definizione di Neruda era tutt'altro che inappropriata.

       Sono partito dai versi del grande poeta cileno per abbozzare un ragionamento che a rigore con quei versi non ha nulla a che fare per tre motivi: il primo è che la poesia è molto bella, il secondo è che dell'innamoramento di Pablo Neruda verso Firenze sono stato testimone diretto  nell'occasione della sua seconda visita, il terzo è che la poesia riflette molto bene ciò che la figura di Fabiani, sindaco popolarissimo per le sue virtù di pubblico amministratore capace, rigoroso ed onesto, ha rappresentato per la maggior parte  dei fiorentini e del mondo politico non solo locale, anche se, come quasi sempre succede,  il trascorrere del tempo ne ha attutito la memoria. Ma veniamo a noi.

       Più spesso di quanto si creda nella storia come nella cronaca e nella politica vi sono situazioni che si ripetono (ce lo insegna, se ce ne fosse bisogno, il caso attualissimo di un estremismo che ne chiama un altro più o meno diverso e opposto), o disegni e intuizioni che per qualche motivo non sono giunti a compimento e che troveranno poi, in epoche successive e in altri contesti, possibilità di concretizzarsi. Gli esempi potrebbero essere tanti. Per ora mi interessa attirare l'attenzione sulle ennesime, confuse e faticose contorsioni dello schieramento di sinistra o, se si preferisce, di centro sinistra del panorama politico nostrano.

     Il libro che molti anni fa una allora giovane ricercatrice empolese-fiorentina – Serena Innamorati – scrisse in ricordo di Mario Fabiani, primo sindaco eletto della Firenze del dopoguerra, ci rivela appunto che alcuni personaggi di un certo peso in quel periodo a cavallo tra gli anni '40 e '50, già allora accarezzarono l'idea di superare, nell'ambito della sinistra, le rigide identità di partito nell'intento di costruire un'aggregazione politica nuova, capace di far confluire forze e istanze prossime ancorché diverse in un unico grande e competitivo schieramento progressista.

      I principali personaggi in questione furono, per il loro ruolo di ideatori e promotori, il sindaco comunista della città e lo scrittore Romano Bilenchi, all'epoca direttore del giornale Il Nuovo Corriere, anche lui iscritto al Partito comunista e molto stimato da Togliatti, con un passato adolescenziale vissuto nel mito di un inesistente fascismo di sinistra ampiamente riscattato nella successiva immersione nella perigliosa avventura della Resistenza fiorentina. Fabiani, al contrario di Bilenchi (i due si incontrarono proprio nella Resistenza e scoprirono quasi subito di avere molti sentimenti e pensieri in comune) prese contatto giovanissimo col Partito comunista e svolse un'intensa attività politica clandestina che gli costò, come si è visto, dopo un periodo di soggiorno non proprio entusiasmante nell'Unione sovietica, una lunga permanenza nelle patrie galere.

Mario Fabiani con Carlo Sforza (le due foto fanno parte dell'archivio della Famiglia Fabiani)

      A riferire compiutamente di quel tentativo è proprio Bilenchi rievocando in prima persona nel libro della Innamorati come nacque e proseguì la sua amicizia con il futuro sindaco di Firenze: “...Nel primo dopoguerra Fabiani e io continuammo a incontrarci...mi piaceva seguirlo qualche volta, nei giorni di festa, se andava a parlare in una casa del popolo. Discorsi franchi, precise critiche all'URSS, quando era il caso, che facevano sobbalzare vecchi compagni e accendevano discussioni chiarificatrici.”

      Due o tre anni dopo le conversazioni diventarono meno generiche. In Toscana e in molte altre regioni il Partito comunista aveva conquistato parecchi comuni grandi e piccoli, ma ai due compagni e amici questo non bastava. “La conquista dei Comuni – osserva Bilenchi – recava prestigio al partito, poteva facilitare alcuni compagni nell'acquisire competenza amministrativa, ma l'essere gli enti locali in mano alla sinistra condizionati e ostacolati dal governo centrale non spostava la situazione politica del paese di un metro. La Democrazia cristiana usava la sua potenza perché la Costituzione nei suoi lati progressisti non venisse applicata. La forza dei lavoratori e soprattutto dei comunisti rimaneva inutilizzata, i loro voti congelati...”

     Se così stavano le cose, che fare? Fabiani e Bilenchi partono dalla convinzione che la base della Dc, soprattutto gli operai e i contadini, ma non solo, avessero gli stessi interessi degli operai e dei contadini che votavano Pci. E che neppure la questione religiosa li dividesse. “La religione in se stessa non è un fatto regressivo, e mai il Partito comunista avrebbe iniziato su quel terreno una lotta che sarebbe stata, in Italia, senza senso e che ci avrebbe precipitato indietro di secoli.” 

Romano Bilenchi

“Ma come dimostrare – si chiede Bilenchi – che la politica della Dc andava contro gli interessi dei contadini e degli operai che votavano per lei?” A questo punto entra in gioco Fabiani. “Egli proponeva, e io ben presto mi convinsi delle sue ragioni – rivela lo scrittore e giornalista – di stabilire un patto con il Partito socialista: noi comunisti avremmo cercato di mandare – dando ove fosse stato necessario i nostri voti ai  socialisti – il Psi al governo degli enti locali insieme con la Democrazia cristiana. Dal canto loro i socialisti avrebbero dovuto impostare poche riforme, misurate, indispensabili, serie...Ci sembrava chiaro che la direzione e la destra della Dc non avrebbero accettato questa politica...” E a quel punto “...il Partito socialista avrebbe abbandonato le responsabilità amministrative locali e si sarebbe schierato, a parità di potere, al nostro fianco e, speravamo, i lavoratori, la sinistra democristiana lo avrebbero seguito.”

L'ipotesi di Fabiani e Bilenchi non si ferma qui, si spinge ben oltre, fino a combaciare – ecco il punto – con i ragionamenti che la sinistra del centro sinistra attuale (il sindaco Pisapia a Milano, i suoi colleghi di alcune altre città e un certo numero di esponenti politici interni o esterni al Pd) porta avanti proprio in questi giorni: la costruzione di uno schieramento progressista in grado di rappresentare le istanze e di raccogliere il consenso di coloro che in vario modo  si riconoscono nella sinistra e capace  magari (perché no?) di attrarre anche i moderati.  (A sinistra, Giuliano Pisapia)

       A questo punto – scrive infatti Bilenchi - “avremmo potuto, prima di giungere ad un partito unico della classe operaia e dei suoi alleati, costituire non un fronte popolare, ma un raggruppamento di partiti, di movimenti, di persone singole, con un programma da realizzare, approvato da tutti, con la solenne sconfessione di chi avesse  voluto esercitare una qualsiasi egemonia sugli altri.” Bilenchi aggiunge che Fabiani era convinto che procedendo in questo modo quel centro sinistra ante litteram avrebbe potuto vincere le elezioni e governare il Paese. Ma siccome evidentemente era ben consapevole che in quell'alba di guerra fredda gli USA avrebbero impedito che i comunisti, dopo la parentesi immediatamente postbellica, ancora influenzata dalla fresca esperienza unitaria resistenziale, tornassero al governo, aggiunse al suo disegno una postilla: “All'inizio, se non fosse stato opportuno che noi comunisti andassimo al governo, avremmo avuto un ministero guidato da Nenni e composto da socialisti e da tecnici.”

      “Avevamo torto, avevamo ragione?”, si chiede Bilenchi. “La nostra era soltanto una proposta che chiedevamo fosse discussa. A Firenze non fummo presi sul serio. Fabiani portò queste proposte a Roma. Il documento interessò Togliatti, ma le resistenze erano molte: probabilmente Fabiani e io avevamo corso troppo e il partito non era ancora pronto a discutere in tutta la sua organizzazione idee di questo genere.”

        Effettivamente il percorso immaginato più di sessanta anni fa  dai due amici e compagni, appare tortuoso e accidentato anche se osservato con gli occhi di oggi. Figuriamoci allora! La loro iniziativa dimostra se non altro che la loro militanza nel Pci, benché assolutamente convinta (tanto è vero che quando Bilenchi dopo la chiusura del “Nuovo Corriere” restituì la tessera proprio nelle mani di Fabiani, anni dopo quando l'amico decise di rientrare nel partito egli gliela riconsegnò: l'aveva infatti conservata in un cassetto)  era tutt'altro che una militanza passiva, incatenata alle leggi dei dogmi e dell'ideologia.

           Dopo il malinconico tramonto di quel progetto, Fabiani e Bilenchi intrecciarono un solido e fruttuoso rapporto con Giorgio La Pira, nel frattempo succeduto a Fabiani al governo di Palazzo Vecchio. Ma questa è un'altra storia e anch'essa meriterebbe di essere raccontata.       

 

Il Galileo