Giuseppe Biscardini: “Gefangennummer: 42872 – Diario di prigionia”
- Biblion edizioni, pp. 222, € 15,00
Recensione di Giuseppe Prunai
“Questo mio scritto non ha la pretesa di essere un racconto romanzato. E’ solo
un diario di un alpino
nel
lungo e infelice periodo di prigionia nei lager tedeschi. E’ stato scritto
durante e non dopo la prigionia e i fratti in esso descritti corrispondono alla
pura realtà”. Così nella quarta di
copertina di questo libro, la cui edizione è stata curata dal figlio di Giuseppe
Biscardini, Roberto, architetto e consigliere socialista al comune di Milano. Lo
scritto ripercorre la via crucis di un militare italiano, sottotenente degli
alpini di complemento, catturato dai tedeschi l’8 settembre, trasferito in una
serie di lager (quello finale fu Sandbostel) e declassato da prigioniero di
guerra a IMI, internato militare italiano, per essersi rifiutato di aderire alla
repubblichina di Mussolini. La condizione di IMI (Italienische Militärinternierte:
una dizione – si dice – coniata direttamente da Hitler) negava ai militari lo
status di prigioniero di guerra, dell’assistenza della Croce rossa
internazionale e di quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra che detta
regole in fatto di vitto, alloggio, vestiario, corrispondenza con le famiglie
etc. Ma agli IMI era tutto negato. Il vitto era miserrimo, spesso malsano
(ingredienti andati a male, pane fatto con segatura e polvere di mattone, acqua
potabile erogata per un’ora al giorno di cui dovevano usufruire
sette od ottomila persone).
Nel giro di alcuni mesi, gli IMI ebbero il crollo fisico dovuto alla
denutrizione, alle malattie (soprattutto quelle dovute al clima freddo e al
sudiciume), alle percosse che ricevevano dai loro carcerieri. Solo il morale
della stragrande maggioranza degli IMI restò alto e restarono fedeli al
giuramento prestato. Solo un’esigua minoranza cedette alle lusinghe di un
trattamento migliore e di un ritorno in
Italia a condizione di accettare di combattere per la repubblica fantoccio del
Duce, a fianco dei tedeschi. Gli internati, secondo una stima, erano poco più di
600mila. Di questi, poco più di centomila aderirono alla RSI, ma molti di questi
si unirono ai partigiani una volta rientrati in Italia. I rimanenti, rifiutarono
decisamente e preferirono
affrontare un incerto futuro, fatto di stenti, di fame, di malattie piuttosto
che macchiarsi della pezza infamante dell’aver servito i repubblichini e i
crucchi.
Marco Cuzzi, professore di storia contemporanea all’Università di Milano,
spiega, nella prefazione del libro, lo stato d’animo dei prigionieri
che portò all’una o all’altra scelta, ma soprattutto analizza le ragioni
dell’oblio in cui cadde la vicenda presso le autorità statali italiane,
soprattutto quelle militari, che tenevano in maggior considerazione i
prigionieri catturati in combattimento senza tener conto che all’origine del
calvario degli IMI c’era lo sfascio dell’esercito lasciato senza ordini precisi,
la fuga di molti generali, dello stesso sovrano, di Badoglio che, come capo del
governo, avrebbe dovuto assumere iniziative belliche adatte alla grave
circostanza.
Si dovettero aspettare gli anni 70 e la caparbietà del presidente Pertini se
agli ex IMI fu riconosciuto il titolo di “combattente per la libertà”.
Alla presentazione del libro, all’Urban Center della Galleria “Vittorio Emanuele
II” di Milano, Roberto Biscardini ha narrato come scoprì il diario fra le carte
di famiglia e convinse il padre a pubblicarlo e ha mostrato, con un attimo di
commozione, il quadernetto, nel quadre il padre aveva scritto il suo diario.
Alla presentazioni sono intervenuti Basilio Rizzo, presidente del consiglio
comunale di Milano, Giuliano Banfi, vicepresidente dell’ANED (Associazione
nazionale ex deportati nei campi nazisti) e lo storico Marco Cuzzi che ha
ripercorso le tappe del calvario degli IMI e ne ha spiegato le motivazioni e le
ragioni morali e patriottiche della loro scelta.
Pubblico di giovani e di anziani alla presentazione. Al termine, molti avevano gli occhi lucidi.
Michela Fontana: “ Nonostante il velo. Donne dell'Arabia Saudita” VandA
epublishing, 2015, pp. 408, euro 15
in versione cartacea, euro 3,99 in versione e-book
Recensione di Adriana Giannini
Per una qualunque donna europea dover trascorrere con il marito, diplomatico
presso l'ambasciata italiana a Riad, due anni e mezzo in Arabia Saudita, sarebbe
stato un enorme sacrificio, un periodo da far
trascorrere più in fretta possibile e da dimenticare, una volta tornata a casa.
Per Michela Fontana, una donna colta e intelligente, dotata della curiosità e
dell'iniziativa dei migliori giornalisti d'inchiesta, è stata invece
un'eccezionale opportunità, un'occasione unica e irripetibile per conoscere
dall'interno, attraverso le donne, uno dei paesi più opachi e contraddittori del
mondo arabo. L'Arabia Saudita, un
enorme paese desertico che nel sottosuolo possiede le più grandi riserve di
petrolio del mondo a cui deve tutta la sua recente ricchezza, è infatti uno
strano miscuglio di modernità e arretratezza. In esso più di 28 milioni di
persone vivono tuttora sotto una monarchia assoluta e sotto l'intransigente
controllo di un “Comitato per la prevenzione del vizio e la promozione della
virtù”, una vera e propria polizia religiosa che si ispira a un rigoroso
fondamentalismo islamico, è dotata dei massimi poteri (imprigionare, frustare e
persino condannare a morte) e ha “volontari”, in realtà ben pagati,
sguinzagliati ovunque. Michela
Fontana non si è fatta scoraggiare dall'obbligo di
girare indossando abaya e hijab (il lungo soprabito nero e il velo che
copre interamente capelli e collo), esonerata come straniera almeno dal dover
coprire interamente il volto con un velo o una maschera, come fa in pubblico la
maggior parte delle donne saudite, e di assumere un autista per i suoi
spostamenti (in questo paese, dove non esistono mezzi pubblici, alle donne è
assolutamente vietato guidare), ma ha seguito con perseveranza il programma che
si era prefissata e che prevedeva di incontrare il maggior numero possibile
delle rappresentanti del mondo femminile saudita.
Dalla studentessa di università rigorosamente femminili alla donna d'affari con
parentele altolocate, dall'attivista per i diritti civili perseguitata dalle
autorità religiose alla madre di famiglia ligia alla tradizione, dall'islamista
radicale convinta alla giovane professionista in contatto grazie ad internet col
mondo occidentale, dall'esuberante e soddisfatta terza moglie di un ricco uomo
d'affari all'infelice nubile che non ha trovato un marito adeguato o alla vedova
o divorziata che loro malgrado sono dovute tornare in famiglia, sono tantissime
le donne che attraverso lunghi colloqui nell'ambiente protetto delle loro case
si sono aperte con la straniera desiderosa di capire il loro modo di pensare e
di vivere. Un modo di pensare che, indipendentemente dal ruolo svolto nella
società, risente tuttora pesantemente dell'indottrinamento ricevuto dalla
famiglia e dalla scuola dove la materia principale sono il Corano e i suoi
corollari. Solo per le più giovani o le più emancipate essere sottoposte per
tutta la vita al controllo di un parente che svolge il ruolo di un vero e
proprio guardiano, contrarre matrimonio con una persona scelta dalla famiglia e
mai vista prima, vivere studiare e lavorare nella completa segregazione sessuale
sono pesanti imposizioni religiose. Per
tutte le altre si tratta di precauzioni che, come affermano, “ci
consentono di sentirsi preziose e protette, non come avviene nel mondo
occidentale dove la donna ha perso il suo valore”.
Il libro che da queste esperienze è venuto fuori è molto di più di una serie di
interessanti interviste. È un quadro dettagliato e inquietante di questo
paradossale paese che ha ispirato alcuni dei più pericolosi movimenti
fondamentalisti – Osama Bin Laden apparteneva a una ricca famiglia saudita,
erano sauditi molti autori dell'attentato alle Torri Gemelle così come
sono sauditi molti attuali finanziatori dell'Isis – ma che elargisce ai suoi
studenti e studentesse (purché accompagnate da un responsabile) generose borse
di studio per specializzarsi negli Stati Uniti e in Inghilterra. Un paese in cui
le donne sono considerate eterne minorenni e dipendono da un maschio della
famiglia – padre, marito, fratello o anche figlio – ma che consente loro di
possedere ampie quote dei grandi patrimoni posseduti da molte importanti
famiglie grazie soprattutto al petrolio. Un paese che, al contrario dei meno
popolosi Qatar ed Emirati Arabi, accanto a immense ricchezze, sontuose dimore e
grattacieli, si calcola abbia un 30 per cento di poveri che non hanno accesso
all'acqua, all'elettricità, all'istruzione e ai servizi sociali. Il petrolio
infatti dà alti introiti ma richiede una mano d'opera poco numerosa e
specializzata, il che fa sì che si preferisca far lavorare gli stranieri, in
particolare indiani o filippini.
Uscito nel marzo di quest'anno il libro ha opportunamente avuto un rilancio nel
mese di ottobre con alcune interessanti presentazioni che ne hanno sottolineato
l'attualità e l'interesse. Certo una casa editrice più importante ne avrebbe
fatto un best-seller, ma per il lettore attento scoprire un libro prezioso può
essere di grande soddisfazione. Chi avesse difficoltà a trovarlo può consultare
il sito
www.vandaepublishing.com
Franca Pizzini - Vita a Palazzo Litta – Signori e grandi dame, artisti e
patrioti, maggiordomi e cameriere - Skira
editore2015, 128 pagine
-ISBN 978-88-572-3004-7 - € 25,00
Recensione di Giuditta Bricchi
Il nucleo iniziale del complesso di Palazzo Litta, in corso Magenta a Milano,
venne costruito tra il 1642 e
il
1648 da Francesco Maria Richini per il conte Bartolomeo Arese,
rappresentante di una delle più influenti famiglie della Milano spagnola
e Presidente del Senato milanese. Successivamente la dimora passò in eredità ai
Visconti Borromeo e da questi ai Litta, che la fecero ampliare e modificare
dall'architetto Bartolomeo Bolli verso alla metà del XVIII
secolo. L’aspetto attuale del Palazzo è frutto di numerosi
rimaneggiamenti che lo hanno progressivamente arricchito e modificato. Il
cortile a colonne e la struttura della parte nobile dell’edificio risalgono al
progetto originale di Richini, lo scalone d’onore e la facciata
sono della metà del Settecento.
All’interno è possibile ammirare cortili
seicenteschi e settecenteschi,
giardini e fabbricati ottocenteschi. Il Palazzo con la
sontuosa facciata barocca si
distacca dalla tradizione delle case nobiliari milanesi, di solito fastose
all’interno ma sobrie all’esterno. Ora Palazzo Litta è sede della Direzione
regionale della Soprintendenza per i Beni e le Attività culturali, che ne cura
il restauro.
Franca Pizzini, sociologa milanese, discendente dei Litta Modignani, racconta,
con uno stile di facile lettura, la
storia di Palazzo Litta e di chi vi
ha abitato e soggiornato, tratteggiando così il percorso di tre secoli di vita
milanese.
Questa straordinaria dimora divenne subito famosa per l’ospitalità data a
personaggi illustri. Le cronache raccontano delle feste in onore di Marianna
d’Asburgo, arciduchessa d’Austria, in viaggio verso Madrid per andare in sposa
al re Filippo IV di Spagna nel 1649, e quelle per Margherita Teresa, infanta di
Spagna, sposa dell’imperatore Leopoldo I nel 1665. Negli anni successivi si
ricordano solenni feste per Elisabetta Cristina di Brunswick, per l’imperatrice
Maria Teresa d’Austria, per Eugenio Beauharnais e per l’arrivo di Napoleone.
Palazzo Litta è stato per almeno due secoli al centro della vita culturale,
sociale e mondana meneghina, per cui
all’Autrice non mancano spunti e aneddoti. Nel volume
compaiono personalità delle famiglie Arese, Visconti, Borromeo e Litta.
Accanto ai padroni di casa vi sono gli ospiti illustri, gli intellettuali, gli
artisti dell’epoca, come i fratelli Verri, Carlo Goldoni, Stendhal, Ugo Foscolo,
Johann Christian Bach, Amadeus Mozart. Non mancano Napoleone Bonaparte e i
fratelli patrioti, Antonio e Giulio Litta, che parteciparono alle Cinque
Giornate di Milano. Intrecciate con la storia principale vi sono storie di
retroscena che riguardano maggiordomi, cameriere e il personale di servizio che
ha reso confortevole la vita nel palazzo. Le biografie delle persone che hanno
vissuto nella dimora sono arricchite da dipinti, disegni e fotografie che
raffigurano il palazzo, i proprietari e i visitatori illustri.