Se son rose….
Gli esiti del summit di Parigi
sul clima globale
di Bartolomeo Buscema
Due sono state le premesse principali dei negoziati al COP 21 di Parigi: la
presa d’atto da parte di tutte le nazioni partecipanti della fondatezza delle
prove scientifiche sui rischi del cambiamento climatico e il poco tempo
disponibile per un efficace contrasto.
Due i parametri cardine per limitare gli effetti negativi del riscaldamento
terrestre: la riduzione delle emissioni di gas serra per contenere l’aumento
globale della temperatura media a due gradi centigradi rispetto al valore
preindustriale e il perseguimento di politiche di adattamento al cambiamento
climatico che, purtroppo, da qualche anno fa sentire con sempre maggiore
frequenza i suoi nefasti effetti.
Per quanto concerne la riduzione delle emissioni, ricordiamo il Protocollo di
Kyoto, che scadrà nel 2020, e che i negoziati degli ultimi anni hanno, di fatto,
superato cercando invece la convergenza su un nuovo trattato sul clima valido
dal 2020 al 2030. A differenza del protocollo di Kyoto che imponeva obiettivi
cogenti alle nazioni, si è invece chiesto ai singoli paesi di dichiarare i loro
“Intended Nationally Detemined
Contributions”, cioè gli impegni vincolanti disposti ad assumersi per la
lotta al cambiamento climatico. Un nuovo approccio che, prima dell’inizio del
summit parigino, ha reso ottimistici la gran parte dei negoziatori che si sono
seduti sui tavoli del cambiamento climatico.
Ma veniamo subito ai risultati del summit mondiale sul clima che il 12 dicembre
scorso ha approvato il “Paris Agreement”: un documento di trentuno pagine che
ora cercheremo di sintetizzarne i contenuti.
Cominciamo con il preambolo che costituisce una sorta di fondale nel quale
trovano adeguata collocazione i riferimenti ai diritti umani, al diritto alla
salute, alle comunità locali, ai migranti, ai bambini, alle persone con
disabilità, alle persone in situazioni vulnerabili, al diritto allo sviluppo,
alla parità di genere, all’empowerment (un processo di crescita basato
sull'incremento della stima di sé) delle donne e all’equità intergenerazionale.
Il documento prosegue riconfermando l’obiettivo cogente di contenere l’aumento
di temperatura media globale i sotto dei 2°C, con l’auspicio di raggiungere un
più ambizioso incremento di 1,5°C.
Chiariamo subito che la soglia di due gradi centigradi è un obiettivo di minima
come confermato dai dati diffusi dall’UNFCCC prima del summit ,dai quali si
evince chiaramente che per restare
sotto l’aumento di due gradi
centigradi ,soglia che introdurrebbe una instabilità climatica irreversibile,le
emissioni totali dopo il 2011
non dovrebbero superare
le mille gigatonnellate di
anidride carbonica. Purtroppo, è sempre
l’UNFCCC che ci informa,
se tutti i Paesi
rispettassero tutti i loro impegni così come assunti prima dei negoziati di
Parigi, già nel 2036 avremo
oltrepassato tale limite.
Si capisce bene come il summit della capitale francese
sia solo l’inizio di un arduo percorso durante il quale
ciascun Paese dovrà fare in modo che i nuovi contributi nazionali
volontari di riduzione
dell’anidride carbonica siano costantemente
incrementati tenendo conto
delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità dei
vari Paesi,i quali devono comunicare al segretariato dell’UNFCCC, entro il 2020,
le strategie di riduzione delle emissioni di anidride carbonica al 2050.
Per quanto concerne l’adattamento al mutamento climatico , nel testo è stato
inserito, purtroppo nell'ambito
delle decisioni non vincolanti, l'invito ai Paesi sviluppati a incrementare il
loro livello di supporto finanziario, alimentando
il fondo denominato Green
Climate Fund, istituito a Cancun
nel 2010 in occasione della sedicesima conferenza delle parti (COP 16),con una
roadmap concreta per raggiungere l'obiettivo di
erogare 100 miliardi di dollari l'anno da qui al 2020 .
Dobbiamo qui registrare che tale fondo
stenta ancora a partire
nonostante l’impegno totale non è poi così gravoso: basta lo 0,06% del Pil
mondiale per alimentarlo, come ha recentemente dichiarato
il vicepresidente uscente
dell’IPCC Jean-Pascal van Ypersele.
Anche i Paesi in via di sviluppo, però, devono fare la loro parte
cominciando al più presto la
stesura di strategie che portino alla definizione di piani di adattamento che in
futuro devono essere aggiornati periodicamente.
Insomma sembra che la parola chiave sia la cooperazione
che spazia dal trasferimento di tecnologia verso i Paesi poveri per
aumentare la loro resilienza ai cambiamenti climatici,
al “global stock take”, cioè
al conteggio aggregato, fissato per il 2023, degli sforzi dei Paesi partecipanti
finalizzati alla riduzione delle emissioni inquinanti,
alla “capacity building”
ossia alla capacità dei Paesi poveri a pianificare azioni efficaci contro gli
effetti negativi del cambiamento climatico.
Una cooperazione anche di lungo periodo che avvii il processo di Carbon
Neutrality dei Paesi in via di
sviluppo che dovrebbero raggiungere
l’obiettivo di
emissioni di anidride carbonica
nette pari a zero entro il 2070.
Nel testo non ci sono riferimenti espliciti allo sforzo di incrementare
considerevolmente le fonti rinnovabili di energia, ma quasi tutti
gli esperti sono concordi
nel sostenere che gli
obiettivi cogenti di riduzione
delle emissioni di gas a effetto serra costringeranno i Paesi a incentivare la
produzione di energia pulita.
Per concludere vogliamo ricordare
una citazione significativa del presidente Obama: l’accordo di Parigi
è la migliore chance che il mondo ha per fermare gli effetti negativi del
cambiamento climatico globale. Speriamo che sia così. Forse in futuro la fortuna
ci verrà incontro, ma oggi non possiamo escludere
scenari indesiderati.