L’età del caos
Un’analisi impietosa e realista
della società contemporanea
e di una classe politica e dirigenziale inadeguata
di Mario Talli
Nella mia pluriennale
collaborazione a Il Galileo ho sempre esitato ad esprimermi in prima persona per
non dare l'impressione a chi legge di considerare il mio punto di vista degno di
particolare attenzione, pur se è altrettanto vero che chiunque scriva in un modo
o in un altro trasmette sempre il proprio pensiero.
La questione è questa: da un po' di
tempo ho la sensazione che se non ci sarà una mezza
rivoluzione
o, se si preferisce, una svolta,
nel mondo stia per succedere qualcosa di grosso e con una rapidità mai vista
prima. Naturalmente ho anche cercato di definire, di
dare un senso, un nome a questa vaga ma persistente sensazione, ma non ci
ero mai riuscito, fino a quando è venuto in mio soccorso il titolo di un
recentissimo libero di Federico Rampini (foto a sinistra), corrispondente di
Repubblica dagli Stati Uniti:
“L'Età del caos”. Rampini supporta il titolo con una serie di citazioni di fatti
e situazioni e con un lungo e circostanziato
ragionamento che comincia da quella sorta di esodo biblico di milioni di
persone in fuga dalla guerra e dalla povertà (di cui Il Galileo si occupa
in questo stesso numero), prosegue
con la crisi dell'Europa comunitaria nella quale la Germania “colosso economico
dai piedi d'argilla” non riesce “a
dare un progetto nuovo, forte e convincente”, con i numerosi conflitti armati in
molte parti del mondo a cui il Papa si è riferito per parlare, con la consueta
franchezza, di una terza guerra mondiale in atto e a cui noi potremmo aggiungere
il futuro incerto delle nuove generazioni alle prese non solo con le difficoltà
a trovare un lavoro ma anche costrette spesso a convivere in un contesto
subculturale in cui dominano l'evasione, l'edonismo e il consumo ed infine le
minacce che un sistema capitalistico senza controlli porta al delicato
equilibrio del nostro pianeta di cui le continue escrescenze climatiche sono il
segnale immediatamente avvertibile e preoccupante.
Riguardo in
particolare all'Europa, anziché procedere verso forme più compiute di
federalismo solidale si notano sempre più segnali di minacciosi scricchiolii e
di un ritorno all'indietro in concomitanza con l'affermarsi di movimenti
xenofobi di impronta neonazista
Che nella nostra
epoca si viva socialmente e individualmente meglio di ieri, intendendo per ieri
non il 1800 ma un tempo a noi più vicino, facciamo i primi cinquanta-sessanta
anni del '900, non ci possono
essere dubbi. Dal punto di vista materiale è di sicuro così. Da altri punti di
vista, più intimi e profondi, per esempio quelli relativi all'etica e alla
morale pubblica e privata, alla capacità di apprezzare la bellezza in tutte le
sue forme ed espressioni, l'esito del confronto tra l'ieri e l'oggi è meno
sicuro. Il compimento dell'industrializzazione e la
rivoluzione tecnologica, se hanno portato indubbi vantaggi, sempre e
soprattutto sotto il profilo materiale, si pensi solo al settore delle
comunicazioni, alla farmaceutica, alla medicina in generale e a quella
chirurgica in particolare, hanno nel contempo
comportato
il pagamento pedaggi piuttosto pesanti. Alle conseguenze sul clima abbiamo
accennato prima, ma anche lo stato di salute del nostro pianeta comincia a
preoccupare. Non dico che abbia ragione Stephen Hawking (a sinistra), un fisico
affetto da una malattia degenerativa che scrive servendosi di un sensore
conficcato nella guancia dove si trova uno dei suoi pochi muscoli
ancora vivi, il quale
di recente si è espresso così: “Credo che la sopravvivenza della specie
umana dipenderà dalla sua capacità di vivere in altri luoghi dell'Universo,
perché il rischio che un disastro distrugga la Terra è grande.”
Senza arrivare a
queste conclusioni catastrofiste, come trascurare, sempre in tema di mutamenti
profondi, di tali dimensioni da caratterizzare un'epoca, l'impatto che hanno
avuto sull'attuale capitolo dolente dell'occupazione e del reddito delle
famiglie l'avvento, in sé forse positivo, dell'industria computerizzata, le
nuove forme di produzione nell'agricoltura a cui si deve la scomparsa di qualche
milione di lavoratori della terra (la maggior parte dei quali, questo va
ricordato, vivevano in condizioni pessime, in molti casi quasi semifeudali),
la rarefazione delle attività e delle botteghe artigiane e dei piccoli ma
personalissimi e tipici negozi, mai uguali l'uno rispetto all'altro, schiacciati
dalle grandi concentrazioni commerciali, l'aggressione dei nuovi strumenti di
comunicazione che incidono sempre più sui comportamenti individuali accelerando
l'azione a svantaggio della riflessione, in sostanza amplificando
il valore del mezzo con le sue numerose e sorprendenti potenzialità a
discapito della sostanza? Queste trasformazioni, come dicevamo prima, hanno
avuto pesanti ripercussioni materiali. Ma non solo. Hanno avuto
effetti negativi anche sulle relazioni interpersonali, sui modi e sul
linguaggio della politica, e perfino sull'estetica delle nostre città.
Giunti a questo punto
converrà abbandonare il discorso generale e analizzare sinteticamente lo stato
delle cose nel nostro Paese, il caos nostrano. Poiché non ci siano dubbi, dirò
subito chiaramente come
la vedo io. Premetto che ho vissuto da bimbetto e poi da adolescente in pieno
regime fascista e dunque ho anche patito come tutti quelli della mia generazione
e di un paio di quelle precedenti la dittatura e la
seconda guerra mondiale. Aggiungo che non sono pessimista di natura.
Eppure, nonostante questi precedenti tristi e dolorosi e le mie inclinazioni
caratteriali, credo che certi aspetti della vita pubblica e sociale italiana
siano oggi ancor più sconfortanti rispetto a ieri. Mi riferisco in particolar
modo alla diffusione del malcostume, della corruzione pubblica e privata
e della criminalità organizzata con coinvolgimenti spesso insospettabili.
Ogni giorno veniamo a conoscenza di episodi sconcertanti, a fronte dei quali
sembra a volte che non vi sia una reazione adeguata, come se
le persone vi abbiano fatto l'abitudine.
Per
quanto riguarda la politica, le forme in cui si esplica, i comportamenti
e il linguaggio di molti
suoi protagonisti, la realtà è quasi altrettanto disperante. Un vice-presidente
del Senato della Repubblica ha paragonato un ministro donna di colore ad un
orango, un ex leader politico ed ex
ministro del medesimo schieramento è stato recentemente condannato per aver
offeso il Presidente della Repubblica, espressioni come “verme” o “bestie”
all'indirizzo di avversari politici sono ingredienti quotidiani, non di rado le
specificità anatomiche costituiscono materia di ingiuria. E poi, diciamocelo
francamente, il livello culturale e di preparazione specifica dei soggetti oggi
attivi in politica è piuttosto basso. Per carità di patria ed anche per non
infierire più del dovuto è meglio evitare confronti con i politici che hanno
agito nei primi due o tre decenni del secondo dopoguerra.
Ed anche questo, in parte almeno, è dovuto alle ricadute negative di
processi che a buon diritto e
oggettivamente sono considerati un avanzamento e un progresso,
come la già citata rivoluzione tecnologica. Un tempo la politica era il
prodotto di ideologie e di passioni che trovavano il modo di manifestarsi ed
esprimersi nell'ambito dei grandi
partiti e organizzazioni di massa. Oggi non è più così.
Le decisioni sono prese in modo autocratico da presunti leader spuntati
dal nulla che del leader vero e proprio in molti casi non hanno la stoffa,
impostisi attraverso comparsate e annunci televisivi. Gli odierni e sempre più
numerosi talk show del tutto inconcludenti, a fronte dei quali è legittimo
domandarsi se giornalisti e politici non abbiano niente di meglio da fare che
perdere tempo in questi salotti sedi non di autentico e civile confronto bensì
della disputa spuria, dell'insulto
e del pettegolezzo. Anche qui c'è davvero da rimpiangere le vecchie tribune
politiche!
Se dall'Italia
restringo ancora di più il perimetro sotto osservazione e volgo per un momento
lo sguardo alla mia Toscana un
tempo famosa “regione rossa” da cui peraltro proviene l'attuale presidente del
Consiglio e segretario de PD, non è difficile accorgersi che se molti anni
addietro decisioni politiche e candidature per il Parlamento, la Regione, le
Province e i Comuni erano discusse nelle organizzazioni operaie e contadine e
nelle sezioni dei partiti rappresentative di tutti gli strati della popolazione,
oggi tali procedure si svolgono entro ambiti ristretti e sconosciuti ai più ed i
ceti e le categorie sociali che le
influenzano sono costituite in assoluta prevalenza da professionisti, in
particolare avvocati, manager o aspiranti tali,
procacciatori di affari,
dirigenti di banche soprattutto territoriali, titolari di industrie e di
organizzazioni economiche e sindacali di impronta imprenditoriale.
Arrivato a
questo punto mi accorgo che il quadro d'assieme che fuoriesce dalle osservazioni
e dai ragionamenti fin qui svolti non è proprio incoraggiante. Spero
sinceramente di sbagliarmi. In ogni caso credo fermamente che non bisogna mai
rimanere con le mani in mano e perdere la speranza. Le soluzioni ovviamente non
consistono in improbabili ritorni al passato, ma al senso critico con cui
affrontare le novità e nei correttivi da apportare a ciò che si rivela
sbagliato.
Più
in generale sono convinto che per uscire dal caos occorra una vera e propria
rivoluzione
culturale.
Intesa in senso traslato e in senso proprio, cioè nel senso di una vera e
propria iniezione di cultura. Sollecitazioni in questo senso mi pare siano
scaturite con particolare insistenza dai discorsi pronunciati dal Papa
- e non soltanto da lui, ma anche dalle parole di altri personaggi tra
cui il Presidente Obama (foto a sinistra) – durante il suo recente viaggio a
Cuba e negli Stati Uniti. A questo proposito mi piace citare alcune parole
pronunciate del sindaco di New York Bill de Blasio dopo un discorso di Papa
Francesco: “ Egli (il Papa – n.d.r.) ci sta mostrando e insegnando che possiamo
realizzare molto più di quel che pensiamo. Sta cambiando l'idea di ciò che è
possibile.” Ormai non c'è più nemmeno bisogno di richiamarsi a Marx per capire
che le sovrastrutture e quindi anche i modi di pensare e i comportamenti che ne
derivano dipendono dalle strutture, dall'organizzazione della società a tutti i
livelli.
In passato un contributo importante alla crescita culturale e politica fu
dato dai partiti. Oggi un ruolo decisivo può venire prima di tutto dalla scuola
e poi dai mezzi di informazione, in particolar modo dalla televisione. Proprio
la tv e quella berlusconiana in specie secondo me è tra i principali
responsabili dell'involuzione culturale e dell'imbarbarimento del nostro Paese.
Qui davvero occorrerebbe una svolta decisa.