Migrare: un verbo che viene da lontano
Dalla preistoria ai giorni nostri
i popoli fuggono da qualcosa di ostile
alla ricerca di migliori condizioni di vita
di Magali Prunai
"Unglücklich das Land, das Helden nötig hat" ,"infelice la terra che ha bisogno
di eroi", diceva Bertolt Brecht nella “Vita di Galileo”. Brecht si riferiva a
una situazione storico-politica molto complessa, che qualcuno sostiene di aver
bisogno di vivere per poterla capire non accontentandosi di filmati e
testimonianze dell’epoca. Brecht attraverso una metafora raccontava i tempi duri
e amari del nazismo in Germania, le ingiustizie e le brutalità. A quasi 80 anni
dalla prima edizione della sua opera certe realtà, certi auspici dovrebbero
ormai essere consolidati nel nostro “essere” di uomini e cittadini del mondo e,
prima ancora, d’Europa.
Ma questo concetto, questo sentimento non è poi così comune nella maggioranza
della gente. Ed è così che assistiamo a manifestazioni di barbarie, di
inumanità, di non comprensione per il diverso e il prossimo.
La paura per il diverso, un generico sentimento di diffidenza verso qualcosa o
qualcuno che non si conosce, è molto più diffuso nella nostra società di quanto
non si creda. La paura del cambiamento, di un’abitudine, di un modo di fare; la
paura verso qualcuno che proviene da realtà diverse dalla nostra che ci fa
completamente dimenticare il nostro passato, la storia dell’umanità tutta e un
qualsiasi concetto basilare di umanità.
Qualsiasi essere vivente, nei secoli, si è spostato da una zona del pianeta a
un’altra alla ricerca di migliori condizioni di vita. Ironicamente potremmo dire
che i primi grandi migranti furono i dinosauri, che si spostavano alla ricerca
di cibo; gli uccelli per definizione migratori che scappano da zone fredde verso
quelle calde, chissà se le rondini che arrivano a Milano a primavera vengono
accolte da un coro di “ruspa” cantato dai piccioni viaggiatori, ormai stanziali,
di piazza del Duomo…
E’ una migrazione quella raccontata nel libro dell’Esodo, dove si narra della
fuga del popolo ebraico, schiavo in Egitto, verso la Palestina sotto la guida di
Mosè, inviato da Dio. Anche se gli storici negano la veridicità di tale
episodio, nella religione, tanto cristiana che ebraica, ha un significato molto
ben specifico legato al concetto di libertà e accoglienza.
E’ una fuga dal proprio luogo natio quello di Adamo ed Eva, cacciati dal
Paradiso terrestre per aver mangiato la mela della conoscenza.
Era una migrazione quella di tutti i dissidenti politici italiani e francesi in
Svizzera o negli Stati Uniti durante il nazi-fascismo. Era una migrazione
forzata quella di tutti coloro che venivano perseguitati per la loro razza,
religione o gusti sessuali. Era una migrazione quella che dal sole del sud
Italia portava tanti italiani a scontrarsi per la prima volta con la nebbia e il
freddo del nord del proprio paese, l’ostilità di tedeschi e svizzeri, le miniere
del Belgio, le “selezioni” di Ellis Island. Erano migrazioni le fughe
dall’Unione Sovietica, dopo più o meno lunghi periodi d’infatuazione per un
ideale che veniva attuato solo a parole.
Che siano di intellettuali, politici, di forza lavoro sempre di migrazioni si
parla. Chi fuggiva dalla guerra, chi era perseguitato dal regime, chi aveva fame
cercava speranza e protezione altrove.
Quando a “scappare” eravamo noi, nei paesi di destinazione venivamo visti come
la peste, la feccia, dei delinquenti. Si sa, per una persona che commette un
atto riprovevole si identifica con quella stessa persona un intero popolo,
un’intera nazione. Anni e anni di cultura, di storia vengono spazzati via dal
PIL e dalle azioni di uno solo. Abbiamo faticato e lottato per ridare al mondo
una visione corretta del popolo italiano che emigrava, una visione di persone in
cerca di speranza e non di delinquenti.
Poi siamo diventati noi il paese di destinazione, siamo diventati noi l’America
e allora anni di povertà, di sofferenze , di valigie di cartone vengono
dimenticati in un minuto. A Lampedusa ogni giorno approdano centinaia e
centinaia di persone, fra richiedenti asilo e non, ma la questione diventa solo
meramente numerica. Non si parla di persone, ma di entità non ben identificate
che per alcuni ci stanno invadendo, per altri se ne approfittano e per altri si
tratta di una mera questione di difesa dei propri confini.
Tanti
scappano per questioni economiche, molti scappano da una guerra. Ed è così che
l’Europa si sveglia e si ricorda che in alcuni paesi, come la Siria, è in corso
una guerra e si decide che questi profughi, i “profughi siriani”, vanno accolti,
mentre per tutti gli altri bisogna valutare meglio da cosa scappano, perché
scappano e cosa rischiano se rimpatriati. Ma subito scattano le polemiche, i
conti da osteria dove esseri umani vengono considerati meno che un tavolino:
“noi ne prendiamo solo tot”; “noi piuttosto chiudiamo i confini!”; “noi
costruiamo un muro di barriera”.
I muri. Molti hanno visto costruire un muro dividere in due l’Europa, tanti
l’abbiamo visto cadere, tantissimi sono arrivati dopo, nel pieno sviluppo di
un’Europa delle Nazioni e delle persone e ora dobbiamo assistere alla
costruzione di una nuova separazione, di un nuovo muro, del fallimento della
così detta politica dei piccoli passi dell’allora Comunità Europea. Campi
profughi, quasi dei lager, ai nostri confini. Disperati rinchiusi nella stazione
di Buda-Pest, lasciati alla mercé delle forze di polizia. Sbeffeggiati,
aggrediti da personale della stampa che dovrebbe limitarsi a raccontare fatti e
denunciare i soprusi. Germania e Austria aprono le loro porte ai richiedenti
asilo siriani, operatori umanitari e semplici volontari austriaci si mettono
alla guida di auto o pulmini per arrivare al confine con l’Ungheria e “dare un
passaggio” per Vienna dato che dalla stazione di Buda-Pest i treni sono tutti
fermi. Il governo magiaro minaccia di arrestare questi volontari con l’accusa di
traffico di essere umani.
Esseri umani che a piedi attraversano una nazione per raggiungerne un’altra, per
raggiungere la speranza. E che differenza c’è fra chi scappa a piedi da una
guerra e molti degli italiani deportati e internati che sono tornati in Italia
attraversando parte dell’Europa a piedi o su mezzi di fortuna, con gli abiti
logori, affamati, guardati di traverso da tutti perché erano la testimonianza
vivente di quell’orrore che già si voleva dimenticare e negare?
23 settembre 2015, Papa Francesco in visita alla Casa Bianca nel suo discorso
afferma “Io qui da figlio di immigrati”. I suoi genitori lasciarono il Piemonte
per cercare fortuna altrove e arrivarono in Argentina dove poterono permettersi
di allevare e far studiare il figlio. Il Papa ha tenuto a precisare che una
grande Nazione come gli Stati Uniti d’America esiste grazie anche ai tanti
immigrati che l’hanno popolata e hanno lavorato per il suo sviluppo, la sua
crescita, contribuendo a farla diventare quella potenza mondiale che tutti noi
conosciamo.
Forse fra i figli dei tanti profughi c’è un futuro Nobel per la fisica, per la
letteratura, per la pace, un futuro Papa… questo non possiamo saperlo, ma
sicuramente grazie all’accoglienza di quei paesi che per definizione sono
considerati ostili verso “il diverso” questo futuro genio o semplicemente un
futuro cittadino modello avrà la possibilità di studiare, lavorare
e attraverso il suo lavoro contribuire allo sviluppo del paese che lo
ospita.