Segreti e fragilità dei colori di Van Gogh

Un workshop al Politecnico di Milano  a 125 anni dalla tragica morte di questo straordinario pittore

 

 

di Adriana Giannini

 

Nell'immaginario collettivo e anche in quello dei suoi più ferventi ammiratori – come chi scrive del resto – Vincent Van Gogh (1853-1890) era un artista che dipingeva con grande impulsività creativa, come spinto dall'ansia di trasferire sulla tela il suo peculiare modo di percepire l'uomo e tutto quanto di animato e inanimato lo circondava. In realtà, la pittura di Van Gogh (immagine sotto il titolo) non era affatto improvvisata, era anzi frutto di un progetto elaborato in anni di studio, in gran parte solitario, e di confronti con quanto aveva fatto chi lo aveva preceduto e stavano facendo i suoi contemporanei.

In una delle numerose lettere scritte al fratello minore Theo, che lo aveva sempre aiutato e appoggiato, egli descriveva così il suo progetto: “Vorrei esprimere qualcosa che consoli come la musica, vorrei dipingere uomini e donne con quell'eternità il cui segno era una volta l'aureola, e che ora noi cerchiamo nelle radiazioni, nello splendore dei nostri colori.” I risultati del suo originalissimo impegno non vennero affatto capiti dai suoi contemporanei (non  vendette neppure un quadro in tutta la sua vita) e ci vollero anni perché critici e galleristi si accorgessero di lui e lo facessero diventare uno dei più apprezzati e quotati pittori di tutti i tempi.

Ora, a 125 anni dalla tragica morte del pittore, avvenuta per suicidio il 29 luglio 1890, è proprio della conservazione di quei colori adoperati in maniera innovativa e quasi sempre puri da Van Gogh – che ne sfruttava la formidabile forza espressiva resa possibile dai progressi raggiunti verso la fine del suo secolo dalla chimica dei pigmenti – che ci si preoccupa perché, come aveva osservato su altre opere del passato lo stesso pittore, “i dipinti, come i fiori, appassiscono”.

In realtà, i problemi di deterioramento delle stesure pittoriche di questo artista sono già da alcuni anni al centro delle indagini di varie istituzioni  europee e in particolare del Van Gogh Museum di Amsterdam che proprio quest’anno propone un nuovo allestimento per una rilettura completa dell’opera di questo geniale artista.(A sinistra: vaso con girasoli).

In Italia a lavorare sui  particolari pigmenti usati dall'artista e a utilizzare nuove tecniche non invasive per la diagnostica e il monitoraggio dei dipinti  vi sono l'ISMTM del CNR di Perugia che, attraverso la dott. Letizia Monico collabora con l'Università di Anversa in Belgio  e il Centro Beni culturali del Politecnico di Milano ed in particolare la dott. Daniela Comelli. Ed è proprio il Centro milanese che ha organizzato un interessante workshop intitolato “Luce e colore: un nuovo modo di leggere la pittura di Vincent Van Gogh”. Ospite di riguardo della giornata è stata ovviamente Ella Hendriks esperta restauratrice e conservatrice presso il Van Gogh Museum di Amsterdam. La dottoressa Hendriks ha ricordato come lo stesso Van Gogh si preoccupasse che il tempo e la luce facessero degenerare i colori dei suoi dipinti e per questo usasse pennellate molto dense, ma come questo espediente si sia in realtà rivelato incapace di conservare lo splendore di alcuni toni intensi come il giallo dei girasoli che tendono a virare verso il marrone o il violaceo degli iris che sono diventati molto più azzurri perdendo la componente purpurea. Quelli che noi adesso possiamo ammirare non sono in realtà più i dipinti che Van Gogh aveva immaginato e realizzato, lo hanno dimostrato le simulazioni al computer che hanno almeno in parte ricreato quello che doveva essere l'aspetto degli originali. Ora che ci si rende conto dell'irreversibilità del fenomeno quello che si può fare – e che già sta facendo il Museo di Amsterdam – è cercare di proteggere al massimo queste opere straordinarie trovando il modo di illuminarle nel modo meno dannoso possibile.

Come si è accennato i responsabili di questa degenerazione dei colori sono i pigmenti prodotti dall'industria chimica di fine Ottocento e proprio del giallo cromo, uno dei colori più amati e utilizzati da Van Gogh, ha parlato al convegno milanese la dottoressa Letizia Monico. Grazie all’uso integrato della spettroscopia, di tecniche avanzate a raggi-X impieganti radiazione di sincrotrone e di strumentazioni portatili non invasive le sue ricerche hanno dimostrato che il processo di alterazione del colore è associato a una riduzione chimica del cromo e che il fenomeno è strettamente correlato alla composizione chimica e alla struttura cristallina del pigmento. I risultati di tale ricerca pongono le prime basi verso la messa a punto di un accurato protocollo per l'illuminazione delle campiture a base di giallo di cromo e per lo sviluppo di un metodo per la ricostruzione digitale del colore originale.  (Foto a sinistra: Donne bretoni)

Di un altro pigmento utilizzato da Van Gogh ha infine parlato la dottoressa Daniela Comelli, docente di Fisica al Politecnico di Milano, presentando i risultati delle analisi da lei effettuate per la prima volta in situ su una delle poche opere di Van Gogh conservate in Italia, l’acquarello Donne bretoni (Les bretonnes et le pardon de Pont Aven del 1888), esposto all'interno della collezione Grassi presso la Galleria d'arte Moderna in via Palestro a Milano.

A proposito di questa opera – in effetti non una delle più espressive di Van Gogh – le analisi eseguite illuminando con luce ultravioletta il dipinto hanno messo in luce come l’artista abbia impiegato un pigmento bianco a semiconduttore a base di  zinco con peculiari proprietà di luminescenza, probabilmente anch'esso frutto dei primi processi di sintesi introdotti alla fine del diciannovesimo secolo. L'attività di ricerca in laboratorio con tecniche di spettroscopia e imaging hanno  inoltre fornito importanti informazioni sulle proprietà chimiche e foto-fisiche di tale pigmento evidenziando sia la variabilità delle impurezze in esso involontariamente introdotte durante i processi di sintesi, sia la forte influenza di tali difetti cristallini sulle proprietà di luminescenza e sui possibili processi di degrado.

Degrado, una parola che ritengo dovrebbe destare preoccupazione anche nei confronti di altre opere eseguite alla fine dell'Ottocento probabilmente con pigmenti analoghi a quelli usati da van Gogh. Questa considerazione mi induce a sperare che, in seguito alla ricerca che ha coinvolto la Galleria d'arte moderna di Milano, si faccia qualcosa per proteggere dalla luce naturale e artificiale le molte e interessanti opere lì esposte, a quanto ci risulta,  senza accorgimenti particolari. Se poi tutto questo servirà anche ad altre collezioni e gallerie non si potrà che dire, ancora una volta, grazie al nostro amato van Gogh.

Il Galileo