Una mostra di pittura a cinquant’anni dalla scomparsa
di
don Lorenzo Milani
Cercare il sapere
solo per usarlo al servizio del prossimo
E’ una delle conclusioni della “Lettera ad una professoressa” la cui dottrina
viene reinterpretata in chiave pittorica da otto allievi dell’Accademia di Belle
Arti di Firenze
di Silvia Talli
Sono passati quasi cinquant’anni da quando, il 26 giugno 1967, don Lorenzo
Milani dovette arrendersi alla malattia e separarsi per sempre dalla sua
comunità. Quando chiuse gli occhi di anni ne aveva solo quarantaquattro e da
quasi tredici era priore di Barbiana, eppure molte cose erano cambiate nel giro
di poco tempo e tanto doveva ancora avvenire. E’ vero, Barbiana era sempre lì,
adagiata ai piedi del Monte Giovi con le sue poche e povere case vegliate dalla
Chiesa di Sant’Andrea e dal piccolo cimitero, altri casolari erano sparsi qua e
là nei campi o addirittura confinati nel bosco; tuttavia, quel piccolo
agglomerato montano sperduto alla vista dei più, era riuscito a diventare
persino “ingombrante” soprattutto laddove le case erano palazzi. Anche da quel
giorno che apriva le porte all’estate, l’eco della sua testimonianza pastorale
non si è mai affievolita; anzi, si è amplificata.
Elisa Zardi, “Sisters”
Nel panorama delle iniziative ispirate alla sua opera pastorale ed educativa
rappresenta senza dubbio una novità quella che ha preso il via a Firenze il 15
giugno, grazie al Progetto Lorenzo Ars costituitosi in seno al “Centro
Formazione e Ricerca don Lorenzo Milani e scuola di Barbiana”, e che toccherà
altre città, italiane e non solo. Si tratta di una mostra di dipinti e disegni
realizzati da otto allievi dell’Accademia delle Belle Arti coordinati dal
professor Adriano Bimbi; otto proprio come gli allievi del Priore che sotto la
sua guida scrissero l’ormai celebre “Lettera a un professoressa”, pubblicato un
mese prima della morte del sacerdote. La mostra, intitolata ”Don Milani il mio
maestro” è curata, oltre che da Adriano Bimbi, anche dal professor Mauro Pratesi
ed è stata allestita presso il Chiostrino della Basilica di San Marco, quella
stessa basilica in cui sono esposti i dipinti del Beato Angelico e del
Ghirlandaio e di cui fa parte il convento che fu dimora dei Domenicani. In una
di quelle celle dimorò fino all’anno del supplizio Fra Girolamo Savonarola e
qualche secolo dopo Giorgio La Pira, uno che non indossava la tonaca e la
politica la faceva nei palazzi ma aveva a cuore i deboli e gli sfruttati.
Elisa Zardi: “D’estate”
Le opere degli allievi dell’Accademia esprimono, attraverso la tecnica, lo stile
ed il sentire proprio di ciascuno, gli aspetti profondi legati alla vita e al
messaggio spirituale, sociale ed educativo lasciati in eredità da don Milani
quali emergono da quegli scritti che sono la voce diretta e autentica della
comunità del Priore. Con questo evento artistico, in sostanza, prende forma un
momento evocativo dello spirito evangelico (nel senso più ampio del termine) che
ha guidato l’attività svolta da don Lorenzo accanto ai poveri e agli esclusi;
momento, questo, che solo l’arte può realizzare pienamente. Così, a chi si
avvicina alle opere, non rimane altro che aprire le porte alla proposta
dell’artista e filtrarla attraverso il proprio sentire in uno scambio silenzioso
e intimo che è un confronto inespresso ma sicuramente profondo e illuminante.
Si può forse affermare che tale iniziativa riannoda il filo che aveva legato l’arte a Lorenzo Milani il quale, nel 1941, non ancora ventenne, aveva iniziato a frequentare il corso di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera; undici anni prima, infatti, si era trasferito con la famiglia da Firenze a Milano. Quello che lo legò al mondo dell’arte fu un periodo breve ma sufficiente perché maturassero in lui scelte tanto radicali quanto irreversibili che avrebbero cambiato la sua vita. Basti pensare che due anni dopo, nel ’43, anno in cui la famiglia Milani fece ritorno nel capoluogo toscano, il giovane Lorenzo abbandonò in maniera repentina il corso di pittura che aveva iniziato sotto la guida di Hans J. Staude per entrare nel Seminario Maggiore di Firenze e avviarsi a diventare sacerdote. (foto a sinistra: Giuseppe Sciortino: "Interno Barbiana").
A
dire il vero, le sue opere non avevano mai mostrato segni di un
talento che lo avrebbe condotto verso una promettente carriera artistica,
ma nemmeno avevano fatto presagire la strada che avrebbe intrapreso nel giro di
poco tempo. Fra l’altro, i disegni di Lorenzo Milani difettavano, in un certo
senso di anima o comunque di originalità interpretativa; almeno così si desume
dalle parole del suo maestro riportate nel testo “Don Milani e la pittura dalle
opere giovanili al santo scolaro”: in essi, infatti, Staude ravvisava
“semplicemente una severa applicazione delle regole che aveva sentito”. Fu lo
stesso Milani che più tardi, rispondendo allo stesso Staude curioso di conoscere
le ragioni di quella scelta improvvisa, imputò proprio al suo maestro la
responsabilità di averlo inconsapevolmente condotto, con i suoi suggerimenti
didattici, alla ricerca di nuovi orizzonti che l’arte non riusciva a soddisfare.
“E’ tutta colpa tua. Perché tu mi hai parlato dell’essenziale, di eliminare i
dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte
dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non
mi bastava cercare i rapporti fra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e
le persone del mondo. Ho preso un’altra strada”.
Com’è noto, quella nuova strada lo condusse direttamente fra gli abitanti di
paesini della campagna toscana: prima San Donato di Calenzano dove fondò una
scuola popolare serale per giovani operai e contadini e successivamente Barbiana
dove nel ’55 dette vita ad una scuola per i ragazzi del popolo che avevano
terminato le elementari, convinto com’era che soltanto con l’istruzione i poveri
avrebbero potuto emanciparsi dalla condizione di subalternità sociale e
culturale nella quale si erano rassegnati a vivere come se ciò fosse frutto di
una condanna inappellabile.
Se la ricerca dell’essenziale aveva spalancato a Lorenzo Milani le porte verso
orizzonti ultraterreni o comunque non contingenti, proprio l’essenzialità può
essere la chiave di accesso per accostarsi alle opere degli allievi
dell’Accademia fiorentina. Non a caso, è vero che l’arte raffigurativa è fatta
di metodo e tecnica, come dal canto suo la poesia è scandita dalla metrica, ma
poi, esattamente come questa, conduce verso un viaggio interiore e personale al
quale l’approccio stilistico scelto dall’artista è funzionale; in questo, del
resto, risiede la magia dell’arte.
Ecco, dunque, gli arnesi da lavoro riprodotti da Stefano Cesarato, stagliati in
primo piano tanto che talvolta sembrano uscire dalla tela. Viene esaltata la
materia che non è fine a se stessa ma evoca ciò che si nasconde dietro e che
materia non è, ma non per questo è meno sostanza: l’individuo che quegli arnesi
li guida sapientemente e con perizia. In definitiva, la centralità degli
oggetti, rappresentati nella loro essenzialità, sembra funzionale ad esaltare
quello che appare essere il vero protagonista di queste opere ossia il lavoro e
la dignità che esso conferisce all’uomo. Tali strumenti sono esaltati da colori
accesi come il rosso della morsa che sembra quasi infuocata o definiti come il
grigio dell’incudine poggiato sopra un grosso ceppo di legno. Bastano uno o due
oggetti per evocare il significato profondo del lavoro ma anche i numerosi
arnesi per saldare sparsi su un tavolo sgretolato e arrugginiti essi stessi
dall’usura sembrano evocare il valore da riconoscere alla manualità. La materia
ferrosa di cui sembra quasi di udire il rumore tagliente non ignora tuttavia la
durezza del lavoro che si svolgeva all’interno del laboratorio che Don Milani
aveva creato all’interno della scuola.
Andrea Mancini: “La mia
classe”
Nei disegni a carboncino di Luca Corti sono le persone che si rivelano
singolarmente e in maniera diretta. Sembrano colti in un’istantanea che blocca
un momento della loro quotidianità strettamente legata alla propria attività
lavorativa. Alcuni sono raffigurati con gli oggetti che usano per svolgere le
loro mansioni abituali, altri con la tuta da lavoro. Ognuno guarda dritto
davanti a sé, quasi a volersi presentare a chi lo osserva; lo sguardo è aperto,
in alcuni l’espressione è fiera e sembra fondersi con un sorriso. In particolare
traspare una dignità e una consapevolezza che sembrano prevalere sulla fatica.
Lo sfondo, identico in ognuno dei singoli disegni, riconduce ad una medesima
comunità territoriale ma nel contempo richiama un elemento che trascende ciò che
è contingente contribuendo ad esaltare ulteriormente ogni singola individualità
che si definisce attraverso il proprio lavoro.
L’uomo
come individuo ha valore di per sé anche con le proprie stranezze o comunque con
quei tratti della personalità che lo allontanano dai canoni convenzionali
facendolo apparire “diverso”; allo stesso modo ha valore e dignità quando rimane
un po’ più indietro perché non tutti possono avere lo stesso passo ma tutti
comunque possono arrivare a qualcosa.
E’ quanto sembra emergere dalle opere di Stefano Galli. Le figure delle persone
rappresentate appaiono a tratti sfumate come se siano indefinibili o comunque
non imprigionabili in rigidi schemi; è così trasmesso un senso di movimento e di
dinamicità. Ad essere sfumati sono in particolar modo le sembianze del volto di
ciascun individuo quasi ad evocare ciò che appartiene alla dimensione interiore
di ognuno di essi; seppure sfumati, i singoli volti sono rivolti verso un
osservatore ideale a cui si mostrano per come sono, senza filtri e senza
nascondere alcuna imperfezione. Elemento comune ad ogni persona rappresentata è
un dettaglio giallo che sembra definire ciascuna di esse come un tratto
distintivo. In queste opere sembra che il giallo sia ridotto e limitato a
qualcosa di esteriore e di non “strutturale” che infatti si sostanzia in un
accessorio: un paio di occhiali che trattengono i capelli, un paio di moderne
scarpe da ginnastica, il logo di una maglietta. Così rappresentato il giallo
potrebbe evocare anche una relativizzazione o un voluto distacco da ciò che
invece di richiamare qualcosa di vitale e di solare, in altri contesti indicava
ciò che non si allineava e si configurava come fisiologicamente deviante.-
Il giallo, per l’appunto, è presente anche in un passo di “Lettera a una
professoressa”, rubricato “tavola dei colori” e compreso all’interno della parte
del libro dedicata all’indagine statistica sul rendimento finale degli scolari
della cosiddetta scuola dell’obbligo statale, colpevole di bocciare con facilità
e di attuare una selezione ottusa e fine a se stessa che colpiva soprattutto i
poveri.
Ecco, dunque, che si paventa uno schema grafico formato da colonne, il giallo
esce fuori da una di esse, o a destra o a sinistra, quando c’è qualcosa che non
va come deve andare: infatti “ Se tutto andasse bene ogni colonna sarebbe di un
colore solo. E invece c’è un mucchio di colori fuori posto. Provi a interessarsi
solo del giallo. Sono i nati nel ’50. La strisciolina gialla fuori posto sono i
pierini. La parte grossa che vien giù verticale sono i ragazzi dell’anno giusto.
Quelli che non sono stati mai bocciati. ”……la sventagliata dei gialli a destra
sono i ripetenti. La mamma di Gianni ha visto il grafico. Le abbiamo detto che
il giallo è Gianni. L’ha seguito col dito. A ogni bocciatura un po’ più a
destra. Sempre più lontano, più isolato, più diverso”.
Il valore dell’individualità come risorsa per se stessi e per gli altri sembra
emergere anche nei ritratti di Debora Piccinini caratterizzati da una speciale
tecnica mista. In essi lo sguardo dell’autrice si incentra su un universo
variegato di persone a lei vicine. Ne scaturisce una dimensione corale che
comprende la stessa Piccinini di cui vi sono due autoritratti. I soggetti sono
mostrati senza mediazioni e si manifestano attraverso pose non studiate e
nemmeno costruite, a volte scomposte ma per questo autentiche in quanto
evocative del loro modo di essere e rivelatrici di ogni singola individualità.
Ciascuna persona ritratta ha un modo diverso di sedersi, di accavallare le
gambe; in sostanza un proprio universo interiore e personale rivelato anche dai
tratti espressivi come pure dagli oggetti che lo identificano nel senso più
profondo del termine. Del resto, il legame amicale come ogni altra relazione
umana si arricchisce attraverso l’unicità di ognuno che è auspicabile sia
riconosciuta pienamente dall’altro.
Si passa, quindi, ai disegni di Andrea Mancini in cui è rappresentato un gruppo
di scolari in posa davanti
all’ingresso della scuola per la fotografia di rito. Tutti sono vestiti con il
tipico grembiulino arricchito dal fiocco ma questo non riesce a renderli statici
e passivi, anzi: emerge sia la vivacità popolare di chi non abituato a stare
fermo o comunque ad assistere, sia la timidezza e la ritrosia di quelli fra loro
che manifestano maggiormente l’imbarazzo e la non abitudine ad avere gli sguardi
rivolti nella loro direzione. Ognuno di essi, comunque, seppure accomunato agli
altri dall’estrazione popolare, trasmette la propria individualità “non
aggiustata” o imbrigliata nemmeno dalla divisa scolastica.
L’essenzialità, evocativa di un universo non contingente che si nasconde dietro
ognuno di essi, può essere rinvenuta anche nei disegni di Giuseppe Sciortino.
Questa volta i protagonisti sono gli interni di Barbiana, rappresentati in tutta
la loro austera semplicità. In un gioco di chiaroscuri, c’è una zona di luce che
in ogni disegno si spande fino a lambire determinati arredi: ora un tavolo
vuoto, una panca o addirittura un inginocchiatoio. La luce sembra evocare
qualcosa di vitale che rigenera e risveglia proiettando verso ciò che sarà. Del
resto, quelle stanze, nella loro dignitosa semplicità, acquistavano
un’importanza quasi trascendente per l’attività che vi si svolgeva e il
significato profondo che essa rivestiva.
In “Lettera ad una professoressa” si legge: “Barbiana, quando arrivai, non mi
sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli
intorno a cui si faceva scuola e si mangiava”. Soltanto in un interno appaiono
in primo piano degli oggetti: sono alcuni sci di legno allineati verticalmente e
in modo ordinato quasi fossero strumenti necessari più oggetti fatti per
un’attività ludica o ricreativa. In effetti, anche durante le ore di scuola non
era contemplato alcun momento da
dedicare al divertimento fine a se stesso e teso ad ingannare il tempo. In un
passo della lettera che i ragazzi della scuola di Barbiana scrissero ai ragazzi
di Piadena e che si può rinvenire in “Lettere di Don Lorenzo priore di Barbiana,
si legge: “Noi non facciamo mai ricreazione e mai nessun gioco. Quando c’è la
neve sciamo un’ora dopo mangiato e d’estate nuotiamo un’ora in una piccola
piscina che abbiamo costruito noi”. Lo sci ed il nuoto, infatti, erano esse
stesse materie scolastiche poiché la scuola doveva fondersi con la vita e non
rimanere avulsa da essa attraverso uno sterile nozionismo; doveva piuttosto dare
strumenti ed insegnare a diventare individui che come tali non dipendono dagli
altri ma solo da se stessi.
Ecco, allora, che un olio su tela di Giulio Bonatti, con una tecnica di cui sono
state notate assonanze con la pittura metafisica del primo De Chirico, riproduce
la piscina che avevano costruito gli stessi allievi con l’aiuto del loro priore
e maestro. I colori sono scuri ed evocano un senso di profondità che sembra
condurre chi vi si immerge verso qualcosa di ignoto e di indefinibile che non
traspare immediatamente e con facilità ma va cercato, appunto, attraverso un
percorso che conduce nel profondo.
L’essenziale trova espressioni diverse negli oli su tela di Elisa Zadi. La
scuola è evocata come momento fondante l’esistenza di ogni individuo nonché
realtà dinamica e creativa attraverso grembiuli bianchi privi dei corpi di
coloro a cui sono destinati. Uno ha al centro una grossa matita, l’altro un
appuntalapis. Sono gli elementari strumenti per disegnare e più in generale per
permettere ad ognuno di liberare la propria creatività esprimendo se stesso per
quello che realmente è. I grembiuli sono bianchi ed uguali evocando ciò che è in
potenza e ancora deve definirsi ma che pure ha gli strumenti per farlo. Ancora
una volta basta un semplice dettaglio ricavato dagli oggetti più comuni per
esprimere un ideale che richiama valori profondi. La scuola, sicuramente come la
intendeva Don Milani, non era solo il viatico per diventare uomini liberi ma
anche per infondere in ognuno il senso di sé e della propria dignità ciò che si
poteva esprimere anche con l’avere cura del proprio aspetto. Ecco quindi i
grandi fiocchi colorati che in altre opere di Zadi ornano i capelli di bambine,
presumibilmente scolare. Il colore evoca vitalità, gioiosità perché la scuola,
del resto, doveva rendere soddisfatti, non cupi e lungi, dall’essere una
costrizione, doveva rappresentare una scelta libera e consapevole. Non a caso
come scrivevano gli stessi allievi di Barbiana ognuno era libero di lasciare la
scuola in qualsiasi momento “per andare a lavorare e spendere” senonché coloro
che avevano iniziato a frequentare i locali della Chiesa di San’Andrea
continuarono e ben presto arrivarono ad ammettere : “Questa scuola, dunque,
senza paure, più profonda e più ricca, dopo pochi giorni ci ha appassionato
ognuno di noi a venirci”. E anche Lucio che aveva 36 mucche nella stalla,
nonostante non ci fosse ricreazione e anche la domenica non fosse vacanza,
ammise “La scuola sarà sempre meglio della merda”
Il sapere era un bene prezioso che doveva essere trasmesso o meglio “donato” e
non tenuto per sé; in particolare doveva essere messo al servizio della
comunità. Ciò si realizzava fra l’altro con i ragazzi del Priore che dopo un po’
di tempo diventavano essi stessi maestri in uno scambio reciproco e solidale con
gli altri. Ecco, dunque, che in un altro olio di Zadi due mani consumate dal
lavoro e appartenenti ad una donna adulta, tengono un piccolo quaderno di cui si
vedono le pagine bianche, come se fossero in attesa di essere riempite. Intorno,
ancora una volta, oggetti semplici come mollette colorate per stendere i panni,
attaccate ad un filo su cui è però appoggiato soltanto un fiocco rosso
svolazzante ma non trattenuto da alcunché. Una molletta trattiene invece un
foglietto adagiato su un tavolo e con su scritto la parola “I care” ossia “mi
sta a cuore”, “me ne importa”; la stessa che Don Milani aveva fatto scrivere in
bella evidenza su una parete della scuola in modo che fosse tenuta sempre a
mente.
Quel vocabolo straniero che presumibilmente non era percepito con soggezione
dagli allievi di Barbiana, avviati dal Priore anche allo studio delle lingue,
esprimeva il valore più alto della politica intesa come strumento di servizio al
prossimo e all’intera collettività le cui esigenze dovevano essere percepite da
ognuno come se fossero le proprie e quindi affrontate con la medesima cura.
Come sottolineato da Mario Lancisi in un testo da lui stesso curato “E allora
Don Milani fondò una scuola – Lettere da Barbiana a San Donato” e pubblicato nel
1970: “Si deve soprattutto a Don Milani la riscoperta del senso genuino della
parola politica come partecipazione ai problemi della comunità. In questa
versione che purificava il termine dalle scorie del politicantismo e del
peggiore partitismo, la politica veniva ad identificarsi con il servizio per la
collettività, e di converso diveniva l’obiettivo massimo della scuola”. Questa
considerazione, riletta a distanza di oltre trent’anni, assume particolare
efficacia per la sua attualità.
Nella già citata lettera dei ragazzi di Barbiana ai ragazzi di Piadena, i primi
scrivevano: …”Dopo pochi mesi ognuno di noi si è anche affezionato al sapere in
sé. Ma ci restava da fare ancora una scoperta: anche amare il sapere può essere
egoismo. Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per
usarlo al servizio del prossimo, per es. dedicarci da grandi all’insegnamento,
alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili”.
Tornando, in conclusione, alle opere esposte in questa bella mostra destinata a
diventare itinerante, è quasi superfluo sottolineare che quella fin qui proposta
è una lettura personale ma è certo che chiunque vi troverà abbondanti spunti per
le proprie personali riflessioni accogliendo istintivamente l’augurio “di
catarsi e di rigenerazione intima e creativa” che in una nota del Centro
Formazione e Ricerca don Lorenzo Milani è rivolto a quanti si sarebbero
avvicinati ad esse.
Il dato incontrovertibile, comunque, è dato dal fatto che all’origine c’è la
potente “provocazione” contenuta nel messaggio lasciato da don Milani che come
un’onda lunga partita da lontano ritorna e si ripresenta con un moto incessante
ma non aggressivo ed avvolge chi si avvicina ad essa rinfrescando le coscienze
ed invitando alla riflessione.
E questo anche se da un mesto giorno di giugno che apriva le porte all’estate
sono passati quasi cinquant’anni.