FAME E SETE:

i principali nemici degli eserciti

e della popolazione civile

 

di Sergio Tazzer

 

 

Doveva essere una specie di guerra lampo, quella promessa dal presidente del Consiglio Antonio Salandra e dal capo di Stato maggiore Luigi Cadorna. Non avevano tenuto in nessun conto le promesse analoghe, andate deluse, dell'anno prima a Parigi e a Berlino.

Quello che aveva azzardato di più era stato l'imperatore tedesco Gugliemo II che, rivolto ai suoi soldati in partenza per Belgio e Francia, aveva promesso, agosto 1914: «Prima che cadano le foglie sarete a casa». Le foglie dovettero cadere per ben cinque volte, coprendo le tombe di milioni di soldati.

Dieci mesi dopo il deflagrare del conflitto, quando il 24 maggio le truppe del regio esercito guadarono il tranquillo Judrio, fiumiciattolo che in Friuli segnava il confine fra Regno d'Italia e Impero d'Austria-Ungheria, Cadorna aveva pensato che in tre balzi sarebbe stato prima a Lubiana, per imboccare poi la via di Vienna. Non fu così.

Il regio esercito, male in arnese dal punto di vista dell'armamento e della logistica, si imbatté in un altro esercito, quello austro-ungarico, che cominciava sì a soffrire carenze di vestiario e di sussistenza, ma che aveva predisposto una linea di difesa munita e organizzata da personalità militari di prim'ordine, a cominciare da Svetozar Boroevic. 

Il terreno dello scontro andò dalle quote inimmaginabili in montagna, partendo dal confine con la Svizzera, attestandosi sulle Alpi e giungendo alla linea dell'Isonzo, con un Carso arido in pianura fino a terminare in Adriatico.

Se – come del resto mise in rilievo un insospettabile, il generale Luigi Segato, già sottosegretario alla Guerra – eravamo impreparati e deficitari in fatto di artiglierie, di mitragliatrici, di fucili, di munizioni, di equipaggiamento individuale, di mezzi tecnici moderni e di quadri qualitativamente adeguati, il rancio previsto per il soldato italiano era – sulla carta – ricco: 4.085 calorie.

Per fare un confronto, dobbiamo andare al 1968 per vedere in Italia raggiungere le 3.000 calorie a testa.

Nelle trincee italiane tuttavia il rancio che doveva giungere la sera, a causa delle difficoltà che le corvée trovavano, talvolta insormontabili, arrivava quando poteva, ed in condizioni qualitativamente discutibili; e l'acqua – tre litri a testa, da regolamento – divenne un miraggio, soprattutto sul fronte del Carso, dove i soldati in trincea, nel putridume e fra i ratti, poco apprezzavano quanto scriveva il futurista Filippo Tommaso Marinetti: «Son cominciate le rosse vacanze del genio. Nulla possiamo ammirare, oggi, se non le formidabili sinfonie degli shrapnels e le folli sculture che la nostra ispirata artiglieria foggia nelle masse nemiche».

Un deposito in prima linea

 

Semmai si ritrovavano in quanto il poeta Giuseppe Ungaretti, volontario nella brigata Brescia sul Carso, ritenne di riconoscersi: «docile fibra dell'universo».

Dopo pochi mesi dall'inizio della guerra, le calorie vennero ridotte, calando a poco più di 3.000 nel 1917.

I magazzini ed i depositi erano quasi vuoti, e l'approvvigionamento dall'estero era molto difficile. Il grano dalla Russia e dalla Romania non poteva giungere, perché l'Impero Ottomano aveva chiuso gli Stretti.

Dalle Americhe giungeva qualcosa, ma la priorità veniva data ai rifornimenti di carattere militare. Se il blocco navale messo in atto dalla Royal Navy stava lentamente portando alla fame gli Imperi Centrali, la guerra sottomarina scatenata da Berlino silurava senza pietà un numero crescente di bastimenti, fino a che – nella primavera del 1917 – l'Ammiragliato britannico non scoprì l'uovo di colombo dei convogli di mercantili scortati da navi da guerra.

E tuttavia L'Italia fu costretta a varare misure di risparmio e di contingentamento dei generi alimentari, imponento le tessere annonarie, le requisizioni e gli ammassi.

Una trista abitudine della guerra: le fucilazioni, molte senza processo o con un processo sommario

Nel dicembre 1916 un decreto luogotenenziale obbligò a vedere il pane solamente raffermo: si pensava che non mangiando pane fresco, se ne sarebbe consumato di meno. Il 12 dicembre un altro decreto displinò il consumo delle pietanze in hotel, ristoranti ed in tutti i locali pubblici. Qualche settimana dopo analogo provvedimento fu adottato anche dal governo francese.

Nel mese di marzo 1917 fu ordinata la chiusura domenicale delle salumerie, mentre in primavera i prefetti ordinarono la denuncia obbligatoria del grano, anche in caso di autoconsumo. La denuncia vale anche per avena ed orzo. Venne varata pure la requisizione dei cereali, mentre a luglio fu vietato esportare fra una provincia e l'altra del regno formaggi ed altri generi alimentari.

Vietata a marzo la produzione dei dolciumi, ne fu normata la vendita delle giacenze. Per i confetti: sachetti da 200 grammi; per caramelle e cioccolatini, sacchetti da un etto. Il 25 per cento del ricavato doveva andare alla Croce Rossa Italiana.

Dopo la disfatta di Caporetto, quando la situazione generale, e non solo quella al fronte, divenne particolarmente difficile, fioccarono le limitazioni e le restrizioni. Nelle trattorie, nelle pensioni e negli alberghi «il pane deve essere somministrato in fette sottili non abbrustolite, dello spessore non superiore a 2 centimetri e non più di 80 grammi a persona».

Depositi di viveri e parte del bestiame fu trasferita per precauzione a sud del fiume Po, nel timore di una avanzata nemica oltre il Piave.

Una rara immagine:  Il 24 maggio 1915 i fanti italiani guadano il fiume Judrio, confine fra Italia e Austria-Ungheria

A dicembre del '17, entrò in vigore pure la denuncia obbligatoria della conserva di pomodoro. All'inizio del 1918 anche il consumo dell'olio subì limitazioni.

Mutò, come si diceva, anche il rancio del soldato: un terzo di calorie in meno, ed una variazione dei generi che lo componevano, facendovi entrare anche la carne congelata che giungeva dall'Argentina.

Anche la carta venne razionata e permessa «solo quando trattasi di generi alimentari, drogheria, medicinali, restando vietato l'uso per tutti gli altri generi».

Negli Imperi Centrali la Seebockade, il blocco navale britannico, si fece presto sentire, anche perché i campi erano stati spopolati, con i contadini messi in uniforme e mandati al fronte, seguiti dai cavalli – la forza motrice in agricoltura – requisiti e militarizzati.

A gennaio 1915, nonostante la Burgfrieden, la pace sociale raggiunta fra i governi, i sindacati e la socialdemocrazia che era la loro rappresentanza politica, sia in Germania che in Austria-Ungheria iniziarono gli scioperi, con le Hungerkravalle, le dimostrazioni nelle zone industriali di Berlino. In Moravia ed in Boemia scoppiarono le hladoveé demonstrace, le dimostrazioni della fame, soffocate nel sangue (un aiuto all'idea nazionale predicata da Parigi da Tomáš Masaryk, che avrebbe portato alla nascita della Cecoslovacchia il 28 ottobre 1918). In Boemia, cuore industriale dell'impero, lo slogan delle manifestazioni era chiaro «mir, svoboda a cléb», pace, libertà e pane.

Scioperi, durissimi, a Budapest, dopo che la gendarmeria aveva sparato sugli operai del deposito locomotive; scioperi a Linz, a Graz, a Wiener Neustadt, nei sobborghi industriali di Vienna; a Trieste ed a Muggia dove protestarono per l'immangiabile pan de paja, pane di paglia, altrimenti definito pan dei sette colori.

Si scava una trincea

 

Accadde anche l'impensabile: scioperarono le maestranze dell'Arsenale di Pola, la più importante base navale imperial-regia. Nelle dimostrazioni, gli scioperanti lanciarono questo slogan )sulla falsariga dell'hip,hip hurrà): gib, gib kruha, dacci dacci pane, un misto di tedesco e di croato. I due alti funzionari giunti da Vienna, ritornarono nella capitale dicendo che era già un miracolo se gli operai tornavano ogni giorno al lavoro: per sé e le loro famiglie ricevevano la miseria di 175 grammi di pane. Essi si trovavano, dissero, «in una condizione lagrimevole».

Il 26 febbraio 1915 il primo ministro austriaco, Karl von Stürgkh, aveva ordinato la requisizione di tutte le farine e di tutte le granaglie: e la guerra con l'Italia non era ancora iniziata, ma quella sul fronte orientale ed in Serbia erano state micidiali, sia per le perdite umane che per il consumo di materiali e derrate.

A Vienna i caffè erano sempre aperti, ma il caffè mancava come lo zucchero. Karl Kraus osservò: «Si vive per mangiare, ma si fa la fame».

Fra gli imperialregi il Menage, così si chiamava il rancio, offriva meno calorie, l'acqua avrebbe dovuto essere di quattro litri (non sempre accadde), ma non fu un miraggio. Le rispettive sussistenze e i servizi del genio militare cercarono di fare miracoli, tuttavia le testimonianze lasciateci raccontano di realtà di sofferenze e di patimenti. Per le fanterie italiane in trincea sul Carso, povero d'acqua, fu un inferno.

Ecco: l'acqua, un elemento vitale, del quale si sa poco, e la cui mancanza tormentò non poco i soldati in trincea.

Se gli imperialregi avevano previsto già nel 1914 di doversi accollare l'onere della fornitura di acqua potabile alla propria truppa, in Italia si dovette attende i primi mesi del 1917 per l'istituzione, al comando del genio, di un ufficio idraulico. Fino ad allora ogni reparto cercò di fare il meglio che poteva.

Torniamo alla sostanza, al cibo. Il giovane imperatore Carlo I, succeduto a vecchio Francesco Giuseppe, voleva portare al più presto il suo impero fuori dalla guerra, anche con tentativi  impacciati. Sapeva che i suoi sudditi erano allo stremo. Decise che sulle mense imperiali non doveva apparire il pane bianco, che invece doveva andare agli ospedali: ma si trattava di un provvedimento spot, come si direbbe oggi.

La situazione era ben più grave: a Vienna i morti di fame toccarono in picco di 800 in una settimana. Le calorie pro capite ballavano intorno a quota 1.000, quando per la sopravvivenza se ne richiedono almeno 2.280.

Un cineoperatore in azione sul fronte italiano

 

Il 30 aprile 1918 a Vienna si esaurirono le scorte di farina Il generale Oskar von Landwehr-Pragenau, il cireneo che Carlo I aveva messo a capo della Commissione per il vettovagliamento, ordinò la requisizione di alcune chiatte di grano che risalivano il Danubio, diretti in Germania e provenienti dalla Romania. Berlino protestò con vigore per l'atto di pirateria e Vienna dovette restituire in fretta e furia i barconi, tranne uno, già svuotato e già trasformato in pane.

La Germania, a fine guerra denunciò 275 mila morti di fame.

Noi, nel nostro piccolo, come Italia dobbiamo dire che dei 600 mila prigionieri di guerra, 100 mila morirono, e la stragrande maggioranza di fame, o meglio: Ödem, edema, come scrivevano i medici militari tedeschi e soprattutto austro-ungarici nei certificati di morte. Del resto, contrariamente ai nostri alleati, Cadorna impose che ai prigionieri di guerra nei Lager degli Imperi Centrali non doveva essere mandato alcun pacco viveri. Era ossessionato dalle diserzioni, e la sua colpa deve essere condivisa anche dalle autorità politiche che accettarono la sua imposizione.

La fame, soprattutto nella Duplice Monarchia, aggravò malattie prima tenute sotto controllo, e nel 1918 la TBC aumentò del 78 per cento rispetto al dato del 1913.

L popolazione civile era sempre più pesantemente coinvolta, senza volerlo, nel conflitto, senza peraltro poter fare nulla per modificarne le sorti.

Anche in Italia, dove comunque furono molte le manifestazioni di protesta per il pane (e il companatico) animate soprattutto dalle donne. La più nota è la rivolta di Torino dell'agosto 1917: i forni erano rimasti senza pane, e le donne – costrette al doppio lavoro in fabbrica ed a casa – scesero in strada; si aggiunsero gli operai e ci furono scontro con la forza pubblica. Numerosi furono i morti da entrambe le parti, fino a quando i moti furono repressi.

Dopo Caporetto, quando l'esercito ed il Paese si rianimarono nella resistenza al nemico, con il nuovo capo supremo, generale Armando Diaz, e con l'aiuto degli alleati, soprattutto gli USA, le cose migliorarono leggermente, sia al fronte che all'interno del paese. L'Intendenza fece del suo meglio per dar da mangiare ai soldati, il genio militare fece miracoli per fornire acqua ai combattenti sull'Altipiano di Asiago e soprattutto sul Massiccio del Grappa.

La lezione del Carso non era stata vana.

In trincea

Soffrirono le popolazioni delle terre invase dal nemico: l'intero Friuli, la provincia di Belluno e parte delle province di Treviso, Venezia e Vicenza. Fu l'anno della fame, caratterizzato dalle requisizioni e dalle vere e proprie rapine attuate degli occupanti, tedeschi (fino a gennaio 1918), e austro-ungarici. Il tutto accompagnato da violenze, soprattutto sulle donne. Aumentò sensibilmente la mortalità fra bambini e vecchi. Il nunzio apostolico a Vienna, mons. Teodoro Valfrè di Bonzo, che dovette occuparsi anche delle diocesi dell'Italia invasa, in una lettera a papa Benedetto XV raccontò di un testimone oculare attendibile che giurava di aver assistito in Friuli ad un osceno commercio di topi: un soldo ciascuno.

Per i soldati italiani il rancio nel giugno 1918 giunse a 3.850 calorie.

Dall'altra parte, gli austro-ungarici facevano la fame, la stessa fame che cancellò l'Impero Russo, quello Ottomano, quello Asburgico e la Germania guglielmina.

E pensare che alla vigilia dell'attentato in cui avrebbe perso la vita assieme alla consorte Sofia, l'arciduca Francesco ferdinando, all'Hotel Bosna, di Ilidže, alla periferia di Sarajevo, intrattenne i suoi quarantacinque ospiti con un bel dîner. Eccone il menu.

Potage Régence

Soufflée delicieux

Blanquettes de truite à la gelée

Piéce de boeuf ed d'agneau

 

Sorbet

 

Poulardes de Styrie, salade, compote

Asperges en branches

 

Crème aus ananas surprise

Fromage

Glaces variées

Dessert

 

E da bere:

 

Madera secco

Bordeaux Château Leonville

Riesling Förster Langemorgen

Champagne Pommery Gréno

Tokaij Szamorodny

Žilavka Ausburch.

 

Con quella cena finì la belle époque e seguì il disastro che tutti conosciamo.

Le foto a corredo di questo articolo sono tratte dalla collezione dell'autore,  Sergio Tazzer.

Il Galileo