Un episodio sconosciuto della Resistenza
narrato da un politico
che si improvvisa storico
Giuseppe Matulli, già vicesindaco di Firenze, attualmente assessore alla cultura
del comune di Scandicci, ha rievocato su
"Studi romagnoli" la vicenda del commissario prefettizio del comune di Tredozio,
invaso dai partigiani della Banda Corbari con i quali il commissario ebbe una
strana intesa
di Mario Talli
Il contributo alla liberazione del nostro Paese dal nazi-fascismo è stato dato
da molte più persone di
quanto
si creda e in modi i più diversi. Per un tempo incredibilmente lungo dalla fine
della guerra non fu attribuito il peso che meritava al rifiuto opposto dagli
oltre seicentomila nostri connazionali in divisa internati in Germania di
aderire alla repubblica di Salò in cambio del rimpatrio. Qualche cosa del genere
avvenne anche a proposito di Cefalonia, dove il diniego alla resa intimata dai
tedeschi ai nostri soldati era sfociato in una cruenta battaglia seguita da una
strage di molti di costoro.
Un caso a sé stante e
certamente in nessun modo confrontabile con quelli ricordati prima e non solo
perché si riferisce ad una sola persona, è stato portato alla luce dalla
paziente ricerca di un noto uomo politico toscano che all'avvicinarsi del
pensionamento causa le ineluttabili ragioni dell'età, non vuole tuttavia
rinunciare a quello che è stato l'impegno di tutta la sua vita: l'interesse per
la cosa pubblica. Il politico in questione è Giuseppe Matulli (foto a sinistra),
una lunga milizia nella Dc (precisamente nella sinistra di Granelli e Galloni e
poi di De Mita), dove ha ricoperto diversi incarichi dirigenziali e ruoli
nel governo nazionale come sottosegretario. E' stato poi
vice sindaco di Firenze e attualmente è assessore alla Cultura al comune
di Scandicci.
Come non ha
scordato l'interesse per la politica intesa come servizio, Matulli non ha
dimenticato le sue origini mugellane (è stato anche sindaco di Scarperia,
il suo paese natale, situato al confine tra la Toscana e la Romagna) ed è
proprio qui che egli ha sviluppato la sua ricerca, mutandosi per l'occasione da
politico a storico.
La persona
oggetto dell'interesse di Matulli si chiamava Jacopino Vespignani. Negli ultimi
mesi della guerra era commissario prefettizio di Tredozio,
piccolo comune in provincia di Forlì. Ma il 1° febbraio del 1944 anziché
trovarsi nel suo ufficio era ospite involontario presso il presidio bolognese
delle SS, cui era approdato dopo alcuni giorni di carcere a Modena e Bologna.
Vespignani era stato prelevato e preso in ostaggio il 27 gennaio insieme a 34
cittadini di Tredozio dopo che la milizia fascista e i tedeschi avevano posto
fine, a conclusione di un sanguinoso scontro a fuoco,
all'occupazione del paese ad opera di una formazione partigiana che agiva
nella zona, la Banda Corbari, dal nome del suo comandante. In quel delicato
frangente il Commissario prefettizio sebbene in modo guardingo si era adoperato
in vario modo per agevolare l'azione dei partigiani e soprattutto si era ben
guardato dall'informare dell'avvenuta occupazione le autorità amministrative
dalle quali in fin dei conti dipendeva.
Il 1°
febbraio, dunque, di pomeriggio, Vespignani era di fronte al comandante del
presidio bolognese delle SS, il quale a conclusione di una serrata requisitoria
lo apostrofò con queste parole: “Può darsi che lei si salvi. Ora chiamerò al
telefono le autorità provinciali di Forlì. Se loro mi confermeranno la sua
sincerità, io la metterò subito in libertà. Altrimenti la farò fucilare
immediatamente.”
Come mai l'ufficiale
tedesco al termine dell'interrogatorio pronunciò queste parole a prima vista
sorprendenti e forse inusuali in quel contesto e sulla bocca di un militare
hitleriano? Ce lo spiega Giuseppe Matulli, che ne ha più volte ragionato col suo
conterraneo. “Nell'interrogatorio Vespignani aveva sconcertato il comandante
delle SS con la più semplice delle tattiche...” . Dopo le dichiarazioni
compromettenti estorte ad alcuni degli ostaggi, “la sola difesa possibile era
puntare sulla verità dei fatti e sulle ragioni che avevano ispirato il suo
comportamento. E per farlo occorrevano intelligenza, coraggio e lucidità.,
qualità non scalfite dalla inevitabile tensione del contesto e del momento.” In
sostanza Vespignani fece presente che a lui era stato chiesto di svolgere le
funzioni di commissario prefettizio e non di podestà, un incarico amministrativo
dunque e non politico, volto unicamente alla salvaguardia della comunità locale
a lui affidata. In quel tempo di guerra e di violenza, lui aveva accettato
quell'incarico per perseguire l'obiettivo, che considerava primario,
“di contenere con tutte le forze e con tutti i mezzi la violenza sulla
comunità di Tredozio. Rivendicava di essere stato coerente con questo obiettivo
e di aver perciò avuto incontri e contatti anche con i partigiani e con lo
stesso comandante Corbari”.
Se la
sincerità del Commissario prefettizio aveva fatto presa persino – fatto quasi
inaudito considerati i loro comportamenti usuali – sull'ufficiale tedesco,
restava ora da vedere quale sarebbe stato il responso delle autorità provinciali
al cui giudizio era affidata la vita o la morte del malcapitato che nel
frattempo era stato ricondotto nella sua cella. L'attesa non deve essere stata
lieve. Per fortuna l'indomani il responso fu favorevole e Jacopino, come
promesso, fu immediatamente liberato. Decisiva, ci fa sapere Matulli, fu la
deposizione del colonnello
comandante dei Carabinieri di Forlì che con il funzionario comunale aveva
“consuetudine di rapporti e comune insofferenza verso l'occupazione tedesca”.
Come “prova regina” della correttezza dell'inquisito, l'ufficiale dichiarò che
“in occasione dell'attacco partigiano alla caserma dei carabinieri di Tredozio
per portare via le armi, egli aveva restituito ai carabinieri la cassaforte
della caserma e la relativa chiave.” Il che era vero, solo che il colonnello si
guardò bene dal rivelare che sia la cassaforte che la chiave erano state
consegnate a Vespignani dal comandante Corbari in persona!
Dalla ricostruzione di Giuseppe Matulli apprendiamo che la scarcerazione
“fu accompagnata dall'ironia tragica del comandante delle SS il quale si scusò
per “le condizioni poco ospitali delle carceri italiane”, dove infatti
Vespignani aveva avuto modo di ascoltare le grida dei torturati e aveva cercato
di aiutare un suo concittadino, Adelmo Conti, malridotto dalle sevizie subite.”
Dal lavoro di Matulli, che contiene un circostanziato e interessante
racconto delle azioni della formazione partigiana che agiva nella zona, della
solidarietà che essa trovò nella popolazione e, per contro, delle sanguinose
risposte dei tedeschi e dei fascisti, abbiamo stralciato soltanto uno dei
numerosi episodi che hanno avuto come protagonista Jacopino Vespignani.
Ma
un cenno lo meritano anche le conclusioni di Giuseppe Matulli che da storico
improvvisato ridiventa immediatamente l'amministratore pubblico e il politico
che è ed è stato per quasi tutta la sua vita. “Nei tempi in cui si consuma la
grande crisi della politica, può sembrare ingenuo o retorico richiamare lo
straordinario esempio di vita e di passione civile di Jacopino Vespignani. Ma la
ricorrenza del V° centenario del Principe, offre l'occasione di chiamare Niccolò
Machiavelli a sottolineare il valore politico di quella esperienza. La prima
tesi del terzo libro dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio recita: “A
volere che una setta o una repubblica viva lungamente è necessario ritirarla
spesso verso il suo principio.” Nel successivo svolgimento Machiavelli specifica
fra l'altro: “(....) Nasce ancora questo ritiramento delle repubbliche verso il
loro principio dalla semplice virtù
di un uomo, senza dipendere da alcuna legge che ti stimoli ad alcuna esecuzione:
nondimeno sono di tale riputazione e di tanto esempio, che gli uomini buoni
desiderano imitarle, e gli cattivi si vergognano a tener vita contraria a
quelle.”
Concetti
straordinariamente attuali in questo confuso “dopo elezioni” che ha visto
l'affermazione di molteplici, pur
se diversificate, istanze umorali, individualistiche e semplificatrici.