il destino di una città
di Magali Prunai
E’ il 24 giugno 1914 e l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono
dell’impero austro-ungarico, e
sua
moglie vengono uccisi: inizia la prima guerra mondiale.
La città di Sarajevo verrà ricordata nella storia principalmente per essere
stato lo scenario di questo terribile attentato. Poco si è detto, poco si è
studiato e approfondito su quanto questa città ha sofferto negli anni fino ad
oggi.
I primi insediamenti umani nel territorio corrispondente all’attuale Bosnia
Erzegovina non sono ben chiari. Da tracce che sono state rinvenute si è dedotto
che il territorio era abitato da diverse popolazioni che parlavano differenti
lingue. Si possono anche riscontrare tracce di una migrazione celtica nel IV
secolo a.C. . Certo è che vi si insediarono gli Illiri, i quali portarono avanti
alcune delle più sanguinose guerre contro i romani. Dopo i romani, dopo essere
stata conquistata dagli Avari, si insediarono nel suo territorio gli Slavi. Tra
il IX e X secolo venne contesa fra il principato di Serbia e il regno di
Croazia, per poi diventare territorio d’interesse, fino al XII secolo, del regno
d’Ungheria e dell’impero bizantino.
Divenuta autonoma, perse la sua libertà agli inizi del ‘400 a causa delle
costanti invasioni turche che si tramutarono in una dominazione fino a buona
parte dell’800.
La dominazione ottomana portò notevoli cambiamenti nella regione: l’emergere di
una comunità musulmana che divenne maggioritaria, soprattutto a causa dei
notevoli benefici sociali, politici ed economici di cui godevano, anche se gli
appartenenti ad altre religioni erano tutelati; venne costruita la biblioteca;
la torre dell'orologio; ponti e moschee. Molti bosniaci divennero personaggi
influenti nella vita pubblica dell’impero ottomano che, però, ben presto
cominciò a vacillare. Questa instabilità portò a malcontenti e a una crisi che
si concluse nel 1878 col il congresso di Berlino e il suo conseguente Trattato.
Il risultato fu l’ottenimento da parte dell’Austria-Ungheria dell’occupazione e
l’amministrazione della Bosnia Erzegovina. L’impero, per tentare di arginare un
sentimento anti austriaco e l’insorgere di un nazionalismo degli Slavi del Sud,
tentò di apportare alcune innovazioni disgregando, pian piano, l’assetto
ottomano e creando un modello di “colonia esemplare”. Il punto di partenza fu la
costruzione di ben tre chiese cattoliche nella sola città di Sarajevo. Insomma,
il controllo di una popolazione, tanto per l’impero ottomano che per quello
asburgico, passava soprattutto e principalmente attraverso la religione e la
conversione.
Nel 1903 un colpo di stato nella vicina Serbia, profondamente anti austriaco,
promuoveva la creazione di uno Stato Slavo del Sud al quale si dovevano unire i
territori della Bosnia Erzegovina, Croazia e Serbia che, al momento, erano sotto
l’influenza austriaca. In Europa cominciò un certo fermento: a Vienna,
l’imperatore era preoccupato sull’evolversi della situazione, la Russia chiese
il suo sostegno nell’ottenere l’accesso per le navi dello zar allo stretto di
Dardanelli verso il Mediterraneo in cambio di un totale appoggio nel caso di
annessione della Bosnia. L’annessione venne formalizzata nel 1909. Tale atto
creò un sempre crescente dissidio fra Belgrado e Vienna, tanto da sfociare
nell’attentato di Sarajevo del 1914 per opera di un giovane nazionalista serbo,
Gravilo Princip.
Terminata la prima guerra mondiale, la Bosnia entrò a far parte dello Stato
degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi che, nel 1929, prese il nome di regno di
Jugoslavia. Questo assetto funzionò fino al colpo di stato del 1941, quando le
potenze dell’Asse la invasero. Un gruppo d’ispirazione nazifascista prese il
potere finché i partigiani slavi, comandati da Tito, non organizzarono un
movimento di resistenza.
Nel 1946 entrò a far parte della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia,
d’ispirazione socialista e comunista, orbitante intorno all’URSS. La storia
della Bosnia Erzegovina e della Jugoslavia sono andate di pari passo fino alla
caduta del muro di Berlino. Ricordata dai libri di storia se non come solo lo
scenario del primo atto che diede avvio alla prima guerra mondiale, la Bosnia
Erzegovina tornò sulla bocca di tutti nel 1984 quando ospitò i giochi olimpici
invernali.
Nel 1980, morto il dittatore Tito, in Jugoslavia si alternarono piccoli governi
che non riuscirono a contenere gli spiriti nazionalisti dei popoli slavi. Caduto
il muro di Berlino e con la progressiva disgregazione dell’Unione Sovietica, gli
stati che fino a quel momento erano stati aggregati in un tutt’uno cominciarono
a scalpitare per ottenere la loro indipendenza. La Bosnia, infatti, tentò di
liberarsi dal giogo serbo. La tensione era notevole tanto che la Comunità
Europea, preoccupata per quanto potesse accadere, convocò una conferenza a
Lisbona dalla quale ne scaturì il c.d. patto Carrington- Cutileiro. Lo scopo era
quello di condividere il potere a tutti i livelli amministrativi delle diverse
etnie, cedendo potere dal governo centrale alle comunità etniche locali. Il
territorio doveva essere diviso in zone etniche, ma di fatto fu impossibile in
quanto quelle multietniche erano maggioritarie rispetto a quelle non miste. Le
tensioni subirono un’escalation tale da sfociare in una sanguinosa guerra per
l’indipendenza. Il Consiglio delle Nazioni Unite approvò nel 1991 un embargo
sulle armi su tutti i territori della ex-Jugoslavia. L’embargo toccò
maggiormente la Bosnia, in quanto la Serbia aveva ereditato gran parte delle
armi dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA).
Il 1 marzo 1992, secondo giorno del Referendum sull’indipendenza della Bosnia
Erzegovina, un membro delle forze speciali sparò su un corteo nuziale uccidendo
il padre dello sposo. In risposta all’accaduto i serbi innalzarono delle
barricate a Sarajevo e in diverse città bosniache. I rappresentanti di serbi e
bosniaci arrivarono alla conclusione di dover mantenere l’ordine nella città,
creando delle pattuglie miste di JNA e polizia bosniaca. Gli scontri armati
furono numerosi e le vittime a decine.
Il 5 aprile i cittadini di Sarajevo organizzarono una grossa manifestazione
contro la guerra. Il corteo si spinse fino alla sede del Parlamento e a pochi
metri dalla sede del Partito Democratico Serbo, due manifestanti persero la vita
colpite da un cecchino non identificato ma probabilmente serbo. Lo stesso giorno
i paramilitari serbi attaccarono l’Accademia di Polizia di Sarajevo, posizione
di comando e strategica in quanto si trovava nella parte alta della città.
A maggio dello stesso anno iniziò il bombardamento della città.
Inizia l’assedio di Sarajevo. I rapporti indicano una media di 329
bombardamenti al giorno nella città, che a causa dell’embargo internazionale
sulle armi si difendeva malamente riportando più sconfitte che vittorie. Molti
contrabbandieri riuscirono a portare clandestinamente nella città delle armi
attraverso quello che poi fu ricordato come il “Tunnel di Sarajevo”: una
galleria che passava sotto la zona neutrale dell’aeroporto istituita dalle
Nazioni Unite e collegava la città con altre zone del paese. Molti lo usarono
anche per scappare e mettersi in salvo. I numerosi incendi che divampavano non
risparmiarono istituzioni culturali, ospedali e gli insediamenti dell’ONU. La
collezione di manoscritti dell’Istituto Orientale, una delle più ricche al
mondo, fu deliberatamente distrutta dalle milizie serbe
L’occidente non si accorse di quanto stava accadendo alle sue porte neanche
quando molti civili morirono dopo un bombardamento mentre erano in coda per
l’acqua. Si decise d’intervenire seriamente solo dopo il massacro di Markale,
ovvero al mercato della città, nel 1994. A quel punto l’ONU impose un ultimatum
alle forze serbe perché ritirassero le armi entro una certa data, pena l’inizio
di attacchi aerei. La Serbia, sullo scadere del termine, ritirò le armi e
progressivamente, fra il ’95 e il ’96, i bombardamenti cessarono, vi fu un
progressivo ritorno alla normalità finché, il 29 febbraio 1996, il governo
bosniaco non decretò la fine dell’assedio di Sarajevo.
I civili pagano sempre il prezzo più alto di una guerra. Il massacro della città
di Srebrenica, che solo negli ultimi anni è stato riconosciuto come genocidio
dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia; le numerose violenze
sulle donne; tutti atti di ordinaria follia che contraddistinguono una guerra.
La ricostruzione, lenta e sofferta, alla fine è arrivata. La città, e la Bosnia
tutta, ha potuto finalmente ricominciare a vivere e a respirare un vento nuovo:
quello del futuro, di cambiamento. Buttate le macerie alle spalle si è
finalmente trovato il coraggio di condannare tutte le atrocità subite e
perpetrate ai danni della popolazione. Un esempio simbolico è stato il Tribunale
delle Donne, svoltosi fra il 7 e il 10 maggio 2015, con lo scopo di portare allo
scoperto e denunciare tutti i crimini subiti dalle donne, il cui corpo, come
sempre, è quello che subisce l’umiliazione peggiore.
La consapevolezza che un vero tribunale non si è mai occupato realmente di certi
fatti ha spinto varie associazioni attiviste per i diritti delle donne, fra le
quali le Donne in Nero, a creare queste tre giornate di racconti, di
testimonianze, di condivisione delle torture psichiche e fisiche subite. E sì,
proprio di torture dobbiamo parlare, perché una violenza su una donna altro non
è che una tortura.
Nessuna sentenza, nessun scorrere del tempo potrà mai cancellarla, ma la
consapevolezza di non essere sole e di essere comprese, tutelate, aiutate può
dare fiducia e una spinta nell’affrontare la vita di ogni giorno.
Una vittoria per chi da anni si occupa dei diritti delle donne, ma anche per
quella parte politica che guarda con crescente simpatia a occidente, verso l’UE.
Nessun bilancio statale, nessun rendiconto economico è o sarà mai allo stesso
livello di eguaglianza e pari dignità.
“Care sorelle, cari fratelli, non avete diritto a dimenticare la vostra storia.
Non per vendicarvi, ma per fare pace”, così papa Francesco mentre celebrava la
messa a Sarajevo durante una giornata dedicata al ricordo della guerra nei
giorni scorsi.
Pace, fratellanza, eguaglianza nel pieno spirito europeista e di
autodeterminazione dei popoli che dovrebbe comandare le scelte politiche di ogni
Stato.