Dalla Triplice alleanza al Patto di Londra
24 maggio 1915:
l’Italia va alla guerra
Cento anni fa il nostro paese dichiarava la quarta guerra d’indipendenza
di Giuseppe Prunai
Dopo aver combattuto l’Austria per tutto il Risorgimento, paradossalmente
l’Italia era sua alleata nel 1914, quando l’Impero Asburgico dichiarò guerra
alla Serbia, in seguito all’assassinio dell’erede al trono d’Austria, l’arciduca
Francesco Ferdinando, il 28 giugno 1914. La guerra fra le due potenze divampò il
successivo 28 luglio e presto coinvolse numerosi paesi europei.
L’Italia
era legata ad Austria e Germania dal trattato della cosiddetta Triplice
Alleanza, un patto difensivo che prevedeva, nel suo complesso e lungo
articolato, di venire in soccorso all’alleato nel caso in cui questi venisse
attaccato. Se ad attaccare fosse stato l’alleato e dal conflitto avesse ricavato
vantaggi territoriali, avrebbe dovuto concedere altri territori ai partners. Per
sommi capi, era questo il senso della Triplice (a sinistra, una cartolina di
propaganda inneggiante alla Treiplice).
Poiché ad attaccare la Serbia era stata l’Austria, oltretutto senza consultare
il governo di Roma, l’Italia non si
sentiva coinvolta e dichiarò la propria neutralità, insieme con il Portogallo,
la Grecia, la Bulgaria, il Regno di Romania e l’Impero Ottomano.
Numerosi furono i tentativi di coinvolgere l’Italia nella guerra. Era
chiaro che un attacco italiano da est contro la Francia avrebbe notevolmente
avvantaggiato Austria e Germania, mentre un attacco da ovest contro Vienna e
Berlino avrebbe creato serie difficoltà ai due alleati tedeschi già costretti a
condurre un conflitto su due fronti: contro Francia e Inghilterra a ovest e
contro la Russia zarista ad est.
Cominciò un serie di trattative diplomatiche per scongiurare l’alleanza di Roma
con Parigi e Londra. Il Kaiser, molto più realista e pragmatico del vecchio e
altezzoso Francesco Giuseppe,
invitava quest’ultimo ad essere più malleabile con l’Italia che reclamava
soprattutto i territori di Trento e Trieste, l’Istria, e il confine all’arco
alpino. In pratica, tutti i territori a maggioranza italiana. Ma Vienna non ci
sentiva da quell’orecchio. Trieste era un porto importante nell’Adriatico ed uno
dei pochi sbocchi al mare dell’Austria. Rinunciarvi sarebbe stato un fatto
negativo tanto dal punto di vista strategico che economico. Del resto, nel DNA
di tutti i popoli mitteleuropei, nonché di quelli dell’Est, c’è l’aspirazione ad
uno sbocco al “mare caldo”, come veniva definito il Mediterraneo. Tirato per i
capelli dal Kaiser, Cecco Beppe offrì all’Italia alcuni territori albanesi.
Offerta respinta perché risibile.
Contemporaneamente, erano state avviate trattative con Parigi e Londra. L’allora
ministro degli esteri, Antonino Paternò-Castello, sesto marchese di San
Giuliano, benché fosse un triplicista convinto, spinse l’Italia nella sfera
politica dell’Intesa Francia-Regno Unito. Fu Sidney Sonnino,
successore del San Giuliano, morto il 13 ottobre 1914, a gestire tutti
gli accordi che portarono Patto di Londra del 26 aprile 1915. Il 4 maggio,
Sonnino trasmetteva un telegramma a Vienna che si può riassumere in tre punti:
1) Ritiro di
tutte le proposte fatte dall’Italia per assicurare la propria neutralità e fine
dei negoziati:
2) Denuncia
della Triplice alleanza:
3)
Affermazione della libertà d’azione dell’Italia;
Umberto I e Francesco Giuseppe in
un teatro a Vienna nel 1881
Era trascorso un anno dall’inizio della guerra e l’opinione pubblica italiana,
ostile all’Austria soprattutto per spirito risorgimentale, si era divisa tra
intervenisti e pacifisti. Nella schiera dei pacifisti, beninteso non
filoaustriaci ma soltanto contro la guerra, i cattolici e gran parte dei
socialisti, mentre fra gli interventisti gli aderenti al gruppo di
Mussolini (forse è presto per chiamarli fascisti ma il senso è quello) e quanti
furono convinti dalla propaganda e dalle cosiddette orazioni di Gabriele
D’Annunzio.
Ma gli accordi di Sonnino, anche se riscuotevano il consenso del Presidente del
Consiglio, Antonio Salandra, e, soprattutto del Re, Vittorio Emanuele III di
Savoia, dovevano essere ratificati dal Parlamento. Camera e Senato, lo fecero
nella seduta del 20 maggio 1915. Scrive Antonio Salandra nel suo libro
“L’Intervento”: “La tornata del 20 fu per me la più memorabile alla quale abbia
mai assistito in quasi mezzo secolo di vita parlamentare”. Il provvedimento con
il quale si concedevano poteri speciali al governo (in pratica, la facoltà di
dichiarare guerra) fu approvato con 407 voti a favore, 74 contrari (i
socialisti), 1 astenuto.
Scrive ancora Salandra: “Quando, proclamato il voto, il Presidente con alte
parole sciolse la seduta, si levò dalle tribune, solenne come un canto
liturgico, l’Inno di Mameli. Forse per la stanchezza, forse per l’emozione,
nell’uscire dovetti sorreggermi appoggiandomi forte un istante al banco dei
Ministri. Sono momenti per i quali si compensa la lunga pena del vivere. Chi può
rievocarne qualcuno deve chiamarsi soddisfatto”.
Il 23 maggio, il nostro ambasciatore a Vienna, Duca d’Avarna, presentò la
dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria. Il giorno successivo, il 24maggio
1915, le truppe varcarono il confine dando inizio al conflitto.
Non è nostra intenzione fare una cronaca della guerra che, con alterna fortuna,
si protrasse fino al 4 novembre 1918, né della gestione burocratica ed
ottocentesca dell’esercito, né della cosiddetta “giustizia militare” che
condusse, durante la guerra, a 350mila processi, con 140mila condanne di cui
poco più di 4.000 alla pena di morte.
Già che siamo in tema di numeri, diciamo subito con il numero totale dei morti,
di qualsiasi nazionalità, fu di 9.722.000 soldati, di oltre 21 milioni di
feriti, molti dei quali rimasero gravemente mutilati.
Fra la popolazione civile si contarono circa 950.000 vittime di operazioni
militari e circa 5.893.000 morirono per cause collaterali come carestie e
carenze di generi alimentari (leggi l’articolo di Sergio Tazzer), malattie ed
epidemie come la cosiddetta “spagnola” (vedi articolo di Luisa Monini) e le
persecuzioni razziali scatenate durante il conflitto.
Ma oltre ai danni e alle ferite fisiche, combattenti e no soffrirono di
un’inedita tipologia di lesioni, studiata per la prima volta. Si trattava di una
serie di traumatizzazioni psicologiche che potevano portare ad un completo
collasso nervoso o mentale. Classificata come “trauma da bombardamento” o
“nevrosi di guerra”, costituì la prima teorizzazione del disturbo post
traumatico da stress. Non sappiamo se esistano statiste numeriche sul numero dei
colpiti che furono un numero incredibilmente alto nella seconda guerra mondiale
per effetto, soprattutto, dei
bombardamenti aerei.
Oltre a ridisegnare la geografia politica dell’Europa, la guerra ebbe anche
notevoli effetti sul piano sociale ed economico.
Se con la guerra terminò la belle époque ebbe anche dei riflessi
economici spaventosi che, alle lunghe, determinarono la formazione di quei
movimenti che portarono all’instaurazione di regimi totalitari. Ma questa è
un’altra storia.