Evoluzione e involuzione di un partito dove la coabitazione delle anime che lo
compongono è sempre più difficile
di Mario Talli
Abbiamo avuto più volte occasione di occuparci su queste pagine immateriali (i
lettori forse lo
ricorderanno)
della prodigiosa, repentina e
perfino tuttora per molti versi inspiegabile conquista del potere da parte di
Matteo Renzi (foto a sinistra), il nostro premier “spietatamente giovane”,
secondo la calzante definizione di un docente dell'Ateneo fiorentino, Marino
Biondi, che per un momento ha tralasciato la critica letteraria della quale è
noto e brillante protagonista, per ragionare anche lui sull'exploit politico del
concittadino. Ora vorremmo dedicare un po' di attenzione, senza la pretesa di
rispondere in un una volta sola a tutti i “perché”, a quella parte soccombente
del Partito democratico, l'attuale minoranza - o meglio: le attuali minoranze –
di provenienza prevalentemente ex Pci, ex Pds ed ex Ds che gli
hanno dovuto cedere il comando.
Senza partire da lontano per non allungare e complicare ancor più il discorso,
ci limiteremo a puntare lo sguardo
per sommi capi sul Pd qual era ed appariva prima dell'avvento del ciclone Renzi.
Come si sa il Partito democratico è il risultato della mescolanza delle due
principali anime politiche e
culturali dell'Italia repubblicana: quella post-comunista e quella
cattolico-popolare che è sempre stata presente nella democrazia cristiana. C'è
chi dice che si sia trattato di una fusione a freddo; in altre parole che le due
culture politiche non siano riuscite ad amalgamarsi. Può anche essere. Anzi:
forse è proprio così, ma d'altronde si trattava e si tratta di un processo
tutt'altro che facile, seppure valesse la pena - e la valga tuttora per la parte
che è rimasta irrisolta – di portarlo avanti.
Non bisogna tuttavia mai dimenticare che il Partito democratico aveva avuto un
precursore importante
nell'alleanza
politico-elettorale realizzata sotto il segno dell'Ulivo, con
Romano Prodi, Walter Veltroni, (foto a destra) Massimo D'Alema (a sinistra),
Francesco Rutelli tra i principali promotori e interpreti e altri rami, foglie e
foglioline a rappresentare un arcipelago assai vario di istanze riformiste.
Un'alleanza cui arrisero risultati tutt'altro che trascurabili in termini di
voti e conseguentemente di potere, ma che non dette i frutti politici duraturi
che avrebbe potuto dare perché azzoppata dalle divisioni, i personalismi e le
ripicche che costituiscono uno dei mali endemici della sinistra, come ha
lamentato giusto pochi giorni fa il sindaco di Milano, Pisapia.
Tornando alla nascita del Pd, dal punto di vista strutturale e organizzativo
poteva sembrare che tra i due versanti fosse destinato a primeggiare quello di
derivazione post-comunista. E' vero che entrambe le realtà in procinto di unirsi
avevano perso, al momento di farlo, parte del loro patrimonio numerico e
strumentale: i post-comunisti per le fughe verso la sinistra più netta e
radicale; i post-democristiani verso un centro dalle molte fisionomie e
soprattutto verso il centro destra berlusconiano. Qualora non fosse bastato il
calcolo numerico delle rispettive forze in campo decisamente a vantaggio degli
ex comunisti, sarebbe stato sufficiente, per capire chi dei due fosse
potenzialmente il più forte, registrare l'appartenenza delle case del popolo,
dei circoli e delle sedi dove gli uni e gli altri si riunivano e si ritrovavano.
Dal punto di vista dell'organizzazione, dunque, chi aveva ereditato un
patrimonio più sostanzioso da mettere in comune erano chiaramente i primi. E
questo poteva avvantaggiarli - e probabilmente per un po' di anni effettivamente
li avvantaggiò - nella delicata ricerca degli equilibri interni e nella
distribuzione degli incarichi e delle postazioni di governo a livello comunale,
regionale e nazionale. Quel che forse allora mancò fu una sufficiente
elaborazione culturale e politica, mancanza sempre perniciosa in politica, che
mal sopporta vuoti di idee e di programmi e ancora più grave per degli uomini
per la maggior parte provenienti da un partito che di tale elaborazione,
dagli esiti più o meno riusciti, ne faceva addirittura un vanto.
Il difetto di una sufficiente elaborazione culturale e politica, d'altronde, si
era già manifestato, a parere di chi scrive, molto prima, ai tempi
dell'obbligato e difficoltoso trapasso dalla vecchia denominazione a quella
nuova a seguito della tragica e rovinosa fine (anche per gli enormi e terribili
costi umani che aveva comportato) dell'esperienza sovietica.
Tornando
al Pd ante-Renzi, ad un osservatore che lo avesse guardato con un po' di
attenzione, specie se sentimentalmente coinvolto, esso
appariva come un partito abbastanza statico, per lo più vocato a gestire
l'esistente, compresa la conservazione delle piccole o grandi porzioni di potere
conquistate nel corso degli anni dai suoi rappresentanti ai vari livelli. Ed
anche la passione e il sentimento si erano forse un po' affievoliti, come
d'altronde è inevitabile che avvenga in qualunque organismo se non tonifica il
corpo con energie nuove e idee fresche.
Nel frattempo i partiti - non solo il Pd ma tutti i partiti e i movimenti
politici vecchi e nuovi – si
presentavano trasformati, non avevano più la forma e la consistenza di un tempo.
Come si usa dire con
una definizione che rende perfettamente l'idea, non erano più strutturati e
solidi con un'organizzazione, una sede, un apparato, bensì liquidi, governabili
mediante i moderni strumenti informatici e affidati alla guida di un uomo solo
al comando. Il processo che ha portato il leader supremo quasi come referente
unico non è recentissimo. Se ne ebbe un primo assaggio al tempo di Craxi (a
destra), poi con Berlusconi e ora siamo in pieno regime autocratico con Grillo,
Renzi e il vecchio (politicamente) Salvini, ormai da molto tempo in politica che
però ha deciso ultimamente di cambiare faccia, contenuti e linguaggio.
Questi nuovi protagonisti per proporsi ai militanti e agli elettori non
necessitano che delle moderne e sofisticate macchinette per comunicare che tutti
ormai hanno in tasca e soprattutto della fedele e onnipresente Tv che li segue
dappertutto in viaggio in Italia e
nel mondo o mentre disquisiscono e si accapigliano in un qualsiasi salotto,
sotto lo sguardo più o meno attento di un pubblico guardone.
Li avrete visti i dirigenti di un tempo del Partito democratico, compresi quelli
che hanno preceduto immediatamente Renzi ai piani alti del partito, il bonario e
simpatico Bersani alle prese con l'ultramoderna velocità comunicativa, oppure lo
stesso D'Alema cui non manca certo
l'abilità dialettica e la parlantina, sottoposto ad una sventagliata di domande
a raffica. Ve li immaginate tutti e due in competizione con il dinamicissimo e
sveltissimo premier attuale che la mattina magari è a Mosca per vedere Putin e
la sera dopocena appare sul Ponte Vecchio a Firenze dove hanno appena finito di
banchettare stilisti, mannequin e industriali della moda !?
Sono la rapidità dei movimenti, la velocità della parola, il colpo ad effetto
dell'annuncio insieme ad altre doti,
le armi decisive in più dell'attuale inquilino di Palazzo Chigi rispetto
agli avversari interni. Costoro sono avvezzi a lunghe e talvolta estenuanti
riunioni che spesso non approdano a risultati visibili, a confronti e
conciliaboli altrettanto lunghi e ripetuti, ragion per cui quando la sospirata
decisione arriva l'effetto è già quasi del tutto svanito.
Oltre che dell'organizzazione e dell'apparato Matteo Renzi non ha neppure più
bisogno della stampa amica per antonomasia, ovverosia della stampa di partito.
Molto meglio e soprattutto più sicuro essere circondati da una corte di
sostenitori e collaboratori fedeli. A decretare la fine dell'”Unita” e di
“Europa” avranno sicuramente contribuito i costi economici non riassorbibili con
le vendite troppo scarse, ma si può essere certi che il segretario-presidente
non ne sente affatto la mancanza. Dopotutto un giornale, benché appartenente
alla scuderia, resta pur sempre uno strumento e un'occasione per uno scambio di
opinioni. E i nuovissimi autocrati della politica non solo non ne sentono il
bisogno, ma potrebbero
verosimilmente
addirittura guardarlo con un certo fastidio, tanto più che gli zelanti e
interessati sostenitori davvero non mancano in quasi tutte le testate che si
stampano in Italia e fuori.
Fino a qualche anno fa, i Bersani, i Veltroni, i D'Alema, insomma gli esponenti
della vecchia guardia del Partito democratico, potevano fare affidamento su un
esercito di sindaci e di assessori sparsi in una moltitudine di comuni che
discendendo per li rami dalla storica insegna del Pci o dalle sue
successive declinazioni ne avevano anche ereditato la fama quasi mai
usurpata di buoni, sagaci e onesti
amministratori. E da essi ricavarne sostegno e decoro. Oramai però, come è
fatale ed anche giusto che sia, gli attuali amministratori comunali del Pd hanno
spesso lo stesso passo veloce di Renzi, camminano con
il cellulare incollato all'orecchio e intrattengono i rapporti di lavoro
inerenti le loro funzioni pubbliche mediante altrettanti dispositivi impersonali
ma dalle capacità infinite.
E' tutto un altro mondo. Chissà se tornerà più un'epoca nella quale vi sia anche
posto per la riflessione e la lentezza!