Ora si smura

Un racconto tra nostalgia e fantasia

 

 

di Giuseppe Prunai

 

“Ora si smura” è un  vecchio adagio toscano, ormai in disuso. Lo sentivo ripetere spesso da quelli più grandi di me almeno di una decina d’anni, nei momenti di difficoltà politica ed economica del Paese, di gravi problemi sindacali. Ma io, poco più che un ragazzo, non ne capivo il senso anche se intuivo qualcosa di grave, di minaccioso.

“Ora si smura” dicevano quelli più grandi di me il 14 luglio del ’48 quando spararono a Togliatti e ripeterono la stessa espressione quando l’Italia aderì al Patto Atlantico e quando la DC tentò di fare approvare la “legge truffa” che introduceva il premio di maggioranza nel sistema elettorale. Ma la legge non passò e non fu smurato nulla. (Nella foto sotto: stampa clandestina con appello all'insurrezione)

“Ora si smura” ripetevano quelli più grandi di me alla Casa del Popolo di Rifredi, a Firenze, quando minacciarono di chiudere la Pignone, prima, e la  Galileo, poi, e un lunghissimo corteo di operai e di impiegati delle due fabbriche, di dipendenti di altre aziende, di cittadini, in testa il sindaco Giorgio La Pira, attraversò la città. “Ora si smura” gridavano gli operai quando carabinieri e polizia sbarrarono il passo al corteo e finì a sassate.

“Ora si smura” ripetevano quelli più grandi di me nelle redazioni locali dei giornali di sinistra: l’Unità, Paese Sera, l’Avanti che io, ormai giovanotto, bazzicavo.

Ma cosa significava quell’espressione? cosa voleva smurare quella gente? Era  una grave minaccia, intuivo, ma non capivo quale. Cosa voleva dire quello “smurare”? Disintegrare, distruggere?  Probabilmente sì. Forse volevano distruggere il “palazzo”, pensavo e mi riecheggiavano in testa i versi di un vecchio canto anarchico: “Daremo fuoco alle chiese e agli altari, distruggeremo i palazzi reali….”

Mi vergognavo a chiedere ai più grandi l’esatto significato di quell’adagio che sapeva un po’ di parola d’ordine e anch’io presi a ripeterlo nei momenti di crisi perché mi rassicurava il fatto che tutti quelli che lo dicevano con rabbia avevano un comune denominatore: avevano fatto la Resistenza nelle Brigate Garibaldi o in Giustizia e Libertà.

Poi, l’impegno quotidiano in un giornale locale limitò moltissimo le mie frequentazioni dei circoli di sinistra.  L’acquisto di un’auto, le domeniche in Versilia o all’Abetone, altre amicizie relegarono quell’espressione in un angolino della memoria.  Ma non fui il solo. Quando mi capitava di tanto in tanto di tornare alla Casa del Popolo di Rifredi mi rendevo conto che, negli anni del boom economico, troppe cose erano cambiate e con queste il linguaggio in cui si affacciavano alcune espressioni inglesi, pronunciate, ovviamente, alla fiorentina: ciuingamme, svinghe,  gezze, rocche e rolle, tuiste  e via dicendo. Anche la gente non era più la stessa. Dov’è il “Bigio”?. “Poverino, gl’ è morto”. “E Lallo?”. “E’ gl’ è all’ospedale, sta per tira’ i’ carzino”che in vernacolo vuol dire che è in  fin di vita. E con il Bigio e Lallo se n’era andato qualcosa, se n’era andata la rabbia nell’esclamare: “Ora si smura”.

Poi l’adagio passò di moda e i più non lo capivano. Una notte, in tipografia, dopo aver visto il titolo della prima pagina , le reazioni di una certa destra ad un’ipotesi di governo di centro-sinistra, mi venne da esclamare “ora si smura”: tutti mi guardarono con aria interrogativa. Soltanto un vecchio linotipista,  Pedro,  si girò verso di me e mi strizzò l’occhio.

Poi il lavoro mi portò a Roma: altra gente, altro linguaggio. Diversi anni dopo,  in gita a Firenze incontrai un vecchio amico. Rimpatriata in una trattoria e poi la visita della casa che fu del nonno che stava ristrutturando.

“Qui verrà il soggiorno, qui la camera da letto, là la sala da pranzo, questo sarà il mio studio. Ma qui c’è una cosa che non mi torna: questo è un muro portante e in mezzo c’è un vuoto. Senti?” e cominciò a battere sulla parete con un mazzuolo.

“Sarà un cavedio con dei tubi”.

“Impossibile: il vuoto è orizzontale”.

Con tacita intesa afferrammo martello e scalpello. Dopo alcuni colpi emerse qualcosa. Allargammo il foro e tirammo fuori un fagotto stretto e lungo avvolto in un telo mimetico. Dall’ involucro emersero un moschetto 38 ed un mitra Beretta, quello con le canne bucherellate e due grilletti, il primo prodotto in Italia negli ultimi anni di guerra, e un paio di caricatori. C’era anche un foglio ciclostilato con l’ordine del giorno della “Divisione Potente” alla Liberazione della città con l’invito a vigilare in armi sulla riconquistata libertà e una copia dell’ordine degli Alleati di riconsegnare le armi. Non tutti i partigiani lo fecero e nascosero fucili e moschetti nei modi più disparati, soprattutto murandoli nelle pareti di casa. Sarebbero servite  per quella rivoluzione proletaria che non ci fu mai perché chi doveva innescarla non ne ebbe il coraggio.

Uno sguardo d’intesa e riavvolgemmo le armi nel telo mimetico, preparammo una cofana di gesso e le murammo di nuovo: portarle in questura, ci sembrò un oltraggio alla memoria del nonno partigiano e alle sue speranze rivoluzionarie.

 E’ passato del tempo. Ma quando vedo le notizie sulla situazione economica e sui rimedi del governo,  sulle  insulse battute di Renzi,  sulla disoccupazione giovanile eccetera eccetera mi viene da esclamare: “ora si smura”.

Il Galileo