“Siam pronti alla vita, Italia chiamò”

Una variazione al testo dell’Inno di Mameli, cantato all’apertura dell’Expo,

ha scatenato polemiche

Manifestazioni contro l’Expo, alcune pacifiche, altre violente con devastazioni, incendi di auto e muri imbrattati ma il giorno dopo, 20mila milanesi, con il sindaco Pisapia in testa, hanno ripulito la città

 

di Magali Prunai

 

 

Exposition universelle de Milan, un chantier à l’italienne: Esposizione universale di Milano, un cantiere all’italiana. Così titolava il 29 aprile l’edizione on-line di Le Monde a proposito dell’apertura dell’Expo 2015. Ritardi, tempo perso a cambiare progetti e a non costruire, infiltrazioni mafiose, corruzione, cantieri non conclusi, operai che l’ultimo giorno, fino all’ultimo secondo, lavorano nel cantiere Expo… questo quello di cui si è parlato principalmente fino all’accensione dell’albero della vita la sera del 30 aprile a Milano.

Nel corso di una trasmissione in mondo visione in cui l’Italia si celebra attraverso il bel canto e l’opera lirica, suo simbolo universalmente riconosciuto, viene illuminato l’emblema di questo Expo e la manifestazione ha finalmente inizio. Il giorno seguente, il primo maggio, festa dei lavoratori, davanti a una platea di alti rappresentanti del mondo intero si inaugura la manifestazione dal titolo “nutrire il pianeta, energia per la vita”. Il cibo sarà la tematica di questa esposizione. Risorse scarse, spreco, coltivazioni…queste le tematiche ricorrenti che domineranno il piano culturale e non solo del capoluogo lombardo per i prossimi sei mesi. (Immagine a sinistra: Goffredo Mameli)

Ma andiamo per gradi. E’ il primo maggio e allo spazio Rho fiera si taglia il nastro di apertura. Discorsi inaugurali, autocompiacimenti, incensamenti e poi gli onori alla bandiera. Mentre la bandiera italiana viene issata due cori, uno di adulti e uno di bambini, canta il nostro inno nazionale senza musica, stravolgendo il ritmo e cambiando una parola della strofa finale. “Stringiamoci a coorte Siam pronti alla morte L'Italia chiamò” viene modificato, fra mille applausi e grida di giubilo, in “Stringiamoci a coorte Siam pronti alla vita L'Italia chiamò”. Il testo dell’inno d’Italia è stato attualizzato, contestualizzato, è così inerente all’evento e poi, del resto, non si può far dire a dei bambini di essere pronti alla morte. Sono solo dei bambini, hanno tutta una vita davanti a loro e a quella devono pensare. Orrore. Pelle d’oca. Veramente si è detto questo? Veramente si pensa questo? Girando per social network è sicuramente il sentimento che prevale. Il pensiero, evidentemente, non è corso a quel ragazzo di 22 anni che è morto durante un moto risorgimentale perché l’Italia, ancora non unita, l’aveva chiamato a crearla. Era solo un ragazzo Goffredo Mameli quando scrisse il nostro inno. Aveva 22 anni quando morì, morì per amore. Per l’amore di un ideale, di un sogno, di un sentimento che è tutto racchiuso in quel “Siam pronti alla morte L’Italia chiamò”. Ma lui viveva in un altro secolo. Evidentemente non aveva diritto alla vita, ma solo alla morte. E il pensiero, inevitabilmente, corre a un anniversario che in Italia abbiamo festeggiato lo scorso 25 aprile: i 70 anni dalla liberazione. Settant’anni fa un gruppo di ragazzi, molti avevano a mala pena 16 anni, sentendo come proprio quel sentimento di rispetto e amore per l’Italia sono corsi a difenderla dall’invasore straniero, disposti a donare la loro vita non per una Italia astratta, non per un concetto che vive nell’iperuranio delle idee, ma per un popolo concreto, fatto di nomi e di volti, di storia e di letteratura, di canti e di musica. (Nell'immagine a destra: il giornale diretto da Mameli)

Ma mentre in pochi si scandalizzavano per questa variazione e la maggioranza la osannava, la giornata è proseguita con le motivazioni di chi è contrario a che si tenga una manifestazione del genere, che esalta il cibo come nutrimento del pianeta e che poi è finanziata da multinazionali che notoriamente uccidono la terra.

E così alcune frange di partiti, sindacati, studenti, movimenti hanno pacificamente sfilato per le vie del centro di Milano cantando, ballando e facendo festa. Nulla di strano. Ogni manifestazione che si rispetti si svolge in questa maniera. Purtroppo, come sempre, cani sciolti, pazzi esaltati, si sono appropriati della scena, mistificando il senso del corteo e trasformandolo in scene di guerriglia urbana e dimostrazioni di scarso sviluppo cerebrale. E così muri di palazzi e negozi sono stati imbrattati, vetrine fracassate, auto incendiate. E così l’opinione pubblica si è concentrata sul disastro facendo, come al solito, di tutta l’erba un fascio e identificando chiunque sia contrario all’Expo con quei vandali.

E la conseguenza, la più ovvia, quale è stata? Che più voci si sono alzate sostenendo che bisognerebbe evitare per i prossimi sei mesi la normale fruizione di due diritti costituzionalmente garantiti: la libertà di manifestazione e la libertà di espressione del proprio pensiero, purché siano sempre rispettosi delle leggi. (A sinistra: uno spezzone pacifico del corteo di protesta)

 

Perché, non dimentichiamo, che in uno Stato libero e democratico chiunque ha diritto a pensare ciò che vuole, senza però aggredire le libertà degli altri. Diceva un celebre illuminista francese: “je ne suis pas d'accord avec ce que vous dites, mais je me battrai jusqu'au bout pour que vous puissiez le dire” .

Domenica 3 maggio i milanesi sono scesi di nuovo in piazza. Armati di secchi, spazzoloni, sgrassatori hanno pulito la propria città al grido di “Giuliano ripensaci”. I milanesi hanno fatto la loro scelta. Expo sì, Expo no, poco importa. La città non si tocca e si è chiesto al sindaco, Giuliano Pisapia, di ripensare alla sua decisione di non ricandidarsi alla guida della città il prossimo anno. Come a dire che a prescindere dal risultato dell’esposizione universale, la città di Milano riconosce competenza e amore nei propri confronti in quell’uomo che domenica scorsa era in piazza Cadorna a pulire i muri.

Più che un Expo del cibo, a me piacerebbe vedere un’esposizione universale dedicata alla cultura, alla storia, al convivere civile, ai valori fondanti delle diverse nazioni che compongono il pianeta, per scoprire che alla fine non siamo poi così diversi in continenti così distanti fra loro. Ma forse, più che un Expo, basterebbe solo una buona riforma della scuola.

 

Una chicca per i nostri lettori: il biglietto d'invito, in seta pura, per l?esposizione industriale italiana di Milano del 1881

 

Il Galileo