la radio italiana
Dalla prima trasmissione nel 1924
alla sua seconda giovinezza
Le prime speculazioni, tuttora valide, sul linguaggio della radio e sul
“giornalista che parla”
di Giuseppe Prunai
Mentre si apprestano a vendere (o svendere secondo alcuni) pezzi di Rai (in
particolare tutto il settore alta frequenza: trasmettitori, ripetitori e ponti
radio – come togliere le ruote ad un’automobile), la presidente della RAI
Tarantola e il direttore generale Gubitosi
con dichiarazioni roboanti hanno commemorato il 90° anniversario della
prima trasmissione della radio italiana.
Ore 21 del 6 ottobre 1924: i pochissimi italiani possessori di apparecchi radio
riceventi si sintonizzarono sulla lunghezza d’onda di 425 metri e dagli
altoparlanti o dalle cuffie (più usate allora) uscì un suono di campane, rimasto
poi sigla tradizionale della radio RAI, e subito dopo la voce di Maria Luisa
Boncompagni: “Uri, Unione radiofonica italiana. 1-RO, stazione di Roma.”
Seguirono altri dettagli tecnici e poi la voce della violinista Ines Viviani
Donarelli introdusse il concerto inaugurale: Il quartetto in la maggiore per
archi di Franz Joseph Haydn. Era nata la radio pubblica italiana.
A 90 anni, la radio si è trasformata. Una volta, il monumentale ricevitore
troneggiava nel salotto buono e la sera, la famiglia si riuniva dinanzi al
marchingegno per ascoltare notizie e programmi.
Scene che si ripeterono, a
metà degli anni ’50, quando comparvero i primi apparecchi televisivi. Allora la
radio sembrò detronizzata, relegata in soffitta. Adesso, invece,
gode di una seconda giovinezza. Perché?
Spiegano i sociologi che la radio è un mezzo pubblico di comunicazione fruibile,
però nel privato. Il suo successo sarebbe, pertanto, assimilabile a quello del
telefono cellulare, e, fatte le debite proporzioni, a quello del cordless che
tuttavia ha un raggio d’azione estremamente limitato nello spazio.
Il taglio del cordone ombelicale
Qual è la ragione del successo del cellulare, il telefonino che tutti abbiamo in
tasca? In primo luogo
l’affrancamento
dalla postazione fissa. Il telefono non è più legato ad una presa, situata in
una parete della casa o dell’ufficio, con un filo, un conduttore, più o meno
lungo, che comunque obbliga chi usa il telefono a stare in una determinata
stanza, a sedersi dietro un determinato tavolo. Il collegamento tramite ponti
radio (le famose cellule) ha abolito il filo, il doppino di rame che collega
l’apparecchio alla centrale. Insomma l’utente ha tagliato il filo,
inconsciamente assimilabile ad un cordone ombelicale che si taglia per annullare
la dipendenza del neonato dalla madre.
Molte persone poi
impiegano quei sistemi di
auricolare-microfono (si usano in auto, ma anche per strada o svolgendo un
lavoro manuale) che consentono di utilizzare il telefono senza doverlo
sorreggere all’orecchio. Insomma, lasciano le mani libere e dànno una sensazione
di maggior libertà. E poi, il telefonino dà la sensazione di una maggiore
riservatezza della comunicazione, di poter colloquiare con una persona senza che
gli altri sappiano con chi state parlando. Il telefono fisso, che vi costringe
in una postazione prestabilita, non garantisce un alto grado di riservatezza.
Primo, perché chi vi è vicino (tanto in casa che in ufficio) può ascoltarvi, più
o meno volontariamente, e dal tono della vostra conversazione può anche
identificare l’interlocutore. Secondo, perché la comunicazione da telefono fisso
è facilmente intercettabile con una cimice, con un telefono in parallelo e via
dicendo. L’intercettazione di un cellulare è abbastanza problematica.
Anche la radio moderna, il radioricevitore, si è affrancata da numerose
schiavitù. Intanto, il peso e le dimensioni. Fino agli inizi degli anni
cinquanta, la radio era un mobile di legno, più o meno elegante, delle
dimensioni (più o meno) di un
televisore da trenta pollici. L’apparecchio radio troneggiava nel bel mezzo del
“salotto buono” e attorno vi si radunava la famiglia, quasi si trattasse di un
caminetto (più o meno quello che accade con la TV). Spesso, la radio era
abbinata ad un giradischi, il cosiddetto “radiogrammofono”, che era un
vero e proprio catafalco di legno.
Una radio così fatta era ingombrante, pesante e, soprattutto, fragile per il suo
contenuto interno ed esterno in vetro: le valvole e le scale parlanti illuminate
da lampadine. Poi aveva tre servitù: il filo dell’alimentazione elettrica,
quello dell’antenna e quello della terra.
L’antenna è stata indispensabile (data la lontananza delle stazioni
trasmittenti) fino alla fine degli anni quaranta per ricevere le onde medie e le
onde corte. Quando, con il moltiplicarsi dei ripetitori, l’antenna esterna fu
sostituita da un pezzo di filo di rame (un mezzo metro di lunghezza) penzoloni
fuori dell’apparecchio, fu tuttavia necessario installare sul tetto delle case
il dipolo per ricevere il mitico “Terzo Programma ” della RAI, il programma
culturale che trasmetteva musica classica, messo in onda su VHF in modulazione
di frequenza. Data la distanza dai
trasmettitori, era indispensabile l’antenna per ricevere questo tipo di
trasmissioni, così come accade per la televisione. Anche questo problema, oggi,
è risolto e non è più necessaria l’antenna per ricevere la modulazione di
frequenza.
Una radio rivoluzionaria
Sono molti i fattori che hanno rivoluzionato la radio e reso possibile il
successo attuale. In primo luogo il transistor, il semiconduttore che ha ridotto
dimensioni e pesi e, soprattutto, ha reso possibile
l’alimentazione con batterie di pile. Cosa un tempo impensabile quando le
valvole richiedevano una tensione anodica fra i 300 e i 500 Volt, a seconda del
tipo di valvola. Il che voleva dire
pensanti trasformatori elevatori di tensione e raddrizzatori di corrente, perché
l’alimentazione delle valvole è in corrente continua e non alternata,
trasformatori in discesa per accendere i filamenti delle valvole, in genere
alimentati a 6 Volt. L’impiego dei transistor e i relativi circuiti, spesso
innovativi nei confronti di quelli a valvola, hanno portato all’eliminazione di
pesanti impedenze, di trasformatori di bassa frequenza contribuendo a ridurre
ulteriormente il peso degli apparecchi.
Altro fattore importante è stato l’uso delle plastiche dure e di poco peso
per realizzare gli involucri delle radio. Non più ingombranti mobili di
radica, ma semplici scatole di plastica.
Poi, il circuito stampato che ha determinato maggiore compattezza nel montaggio
e ridotta al massimo la fragilità. Aggiungiamo le vernici schermanti, che hanno
reso possibile l’eliminazione dei pesanti schermi metallici di alcuni stadi
dell’apparecchio. Da non sottovalutare anche la possibilità di trovare, sul
mercato, tipi di batterie di pile di discreta durata e di peso relativamente
basso.
Infine, il moltiplicarsi dei ripetitori dei grossi network e, in genere,
l’aumento delle potenze, che hanno praticamente eliminato le antenne, sostituite
da un piccolo stilo telescopico o da una bobina, nascosta all’interno della
scatola-radio. Un apparecchio radio così concepito è indubbiamente quanto di più
portatile si possa realizzare. Ecco alcuni dei motivi principali di questa
seconda giovinezza della radio. A questi va aggiunta la radio digitale che offre
dei sonori di qualità e la possibilità di ricevere la radio direttamente con il
telefonino.
Il linguaggio della radio
La radio era appena nata che scoppiò la discussione fra intellettuali su cosa
avrebbe dovuto essere, il
suo
linguaggio.
La comunicazione fra essere umani è un sistema complesso fatto principalmente di
parola e immagine, cioè i messaggi che impegnano due dei nostri sensi, cioè
l’udito e la vista (ma ci sono anche altre componenti relative agli altri tre
sensi, perché esiste anche un
linguaggio del tatto, dell’olfatto e del gusto).
Limitiamoci ai primi due che sono la componente maggiore del linguaggio delle
relazioni formali. Le altre tre componenti prevedono tipologie di relazione
diverse fra le persone. Parola e immagine formano un sistema binario che molti
ritengono inscindibile. Alla radio, questo sistema viene spaccato in due. Non
c’è l’immagine, c’è solo la parola.
A fissare le prime idee su questa circostanza furono Filppo T. Marinetti (foto a
sinistra) e il poeta futurista Pino
Masnata nel “Manifesto futurista
della radio” nel 1933. Marinetti chiama “la radia” qualsiasi manifestazione
della radio (ne parleremo più avanti).
Ma la discussione affrontò soprattutto il tema dell’attività del giornalista
radiofonico, il cosiddetto “giornalista che parla”.
Il primo giornale radio è del 7 gennaio 1929. Ermanno Amicucci (foto a destra),
giornalista e allora sottosegretario alle
Corporazioni, (poi direttore della Gazzetta del Popolo e successivamente del
Corriere della Sera nel periodo della RSI), scrisse in un articolo sul “Radio
orario”, come si chiamava allora il Radiocorriere”.
“Il «giornalista che parla» è un
nuovo tipo di giornalista, che non ha bisogno di penna e di carta, che non
conosce cartelle, né linotipisti, né piombo, né giornali; ma si serve unicamente
della voce per esercitare la sua professione. E’ il giornalista che descrive,
istante per istante, l'avvenimento dal punto preciso in cui si svolge sotto i
suoi occhi, e ne fa partecipe il suo pubblico in ascolto alla Radio nei più
disparati e lontani luoghi del mondo”.
Far vedere con la voce
Questo giornalista, scrive ancora Amicucci, “deve possedere, al sommo grado, le
qualità del reporter moderno: cioè prontezza di visione, sensibilità di
percezione, intuito giornalistico e, nel tempo stesso, preparazione tecnica,
conoscenza della materia, arte del colore, padronanza della lingua, immediatezza
di locuzione. Da un campo di corse, da uno stadio, da una piazza, - dovunque
l'avvenimento lo richieda - egli deve vedere e far «vedere» ai suoi ascoltatori
la scena che si svolge sotto i suoi occhi. La sua missione non è facile, perché
egli è un giornalista che, oltre tutto, non può pentirsi e non può correggersi.
Le sue parole corrono l'aere e sono afferrate istantaneamente da migliaia e
migliaia di ascoltatori, i quali attendono con impazienza la descrizione delle
varie fasi dell'avvenimento”.
Questo distintivo era l’insegna di cui potevano fregiarsi i “radionipoti” di
“nonnaradio”, personaggio di spicco del Giornale Radiofonico del fanciullo,
trasmissione dell’EIAR in onda nel pomeriggio tra la fine degli anni 20 e i
primi anni 30. Nonna radio era impersonata da Maria Luisa Buoncompagni, che fu
la prima annunciatrice della radio italiana
Tornando all’Amicucci, per lui e soci (siano in pieno ventennio fascista) la
radio, comunque, avrebbe dovuto avere soprattutto la funzione di “abbellire la
vita pubblica”, tendenza contestata da Bertold
Brecht. Scrive in “La radio come mezzo
di comunicazione”: “Non solo essa (la radio) ha dimostrato scarsa attitudine a
farlo, anche perché la nostra vita pubblica rivela purtroppo scarsa attitudine a
venire abbellita”. Brecht suggerisce però di trasformare la radio da mezzo di
distribuzione di informazioni a mezzo di comunicazione.
Dice Brecht: (foto sotto a sinistra)“La radio potrebbe essere per la vita
pubblica il più grandioso mezzo di
L’utopia di Brecht
E questo è accaduto più tardi quando, grazie al miglioramento delle linee
telefoniche, è stato possibile stabilire un contatto diretto con l’ascoltatore.
E’ stato allora che la cosiddetta “Utopia di Brecht” è divenuta realtà. La
radio, attualmente, è un mezzo interattivo, nel senso che l’ascoltatore non è
più un soggetto passivo della notizia, ma può mettersi in contatto con un
giornalista, con un esperto, chiedere approfondimenti, commentare, discutere,
aggiungere notizie fino allora inedite. Un po’ quello che accade sui forum di
Internet.
Il primo programma che si avvalse di questo sistema fu “Chiamate Roma 3131” in
onda al mattino su Radio2 che allora si chiamava “Secondo programma”.
Proseguendo questa carrellata, dobbiamo ricordare che prima di Brecht, si occupò
di radio, come abbiamo già accennato,
anche Filippo Tommaso Marinetti che, insieme con Pino Masnata (poeta
futurista sconosciuto), scrisse nel 1933 “il manifesto futurista della radio”,
che chiamò “la radia”.
“La radia” di F.T. Marinetti
Dice, fra l’altro, il “manifesto”: LA RADIA SARÀ':
Libertà da ogni punto di contatto con la tradizione letteraria e artistica.
Qualsiasi tentativo di riallacciare la Radio alla tradizione è grottesco.
Un'arte nuova che comincia dove cessano
il teatro, il cinematografo e la narrazione.
Al punto 12 del “manifesto” Marinetti dice che “La Radia” è Parole in libertà.
La parola – spiega - è andata
sviluppandosi come collaboratrice della mimica facciale e del gesto.
Scomparendo nella Radia questa collaboratrice (cioè la mimica) occorre la parola
sia ricaricata di tutta la sua potenza, quindi parola in libertà; diventando
parola essenziale e totalitaria, ciò che nella teoria futurista si chiama
parola-atmosfera. Le parole in libertà; figlie dell'estetica della macchina,
contengono un'orchestra di rumori e
di accordi rumoristi (realisti o astratti) che soli possono aiutare la parola
colorata e plastica nella rappresentazione fulminea di ciò che non si vede. Se
non vuole ricorrere alle parole in libertà il radiasta (cioè il giornalista
della radio) deve esprimersi in quello stile parolibero (derivato dalle nostre
parole in libertà) che già circola nei romanzi avanguardisti e nei giornali;
quello stile parolibero tipicamente veloce, scattante, sintetico, simultaneo.
In epoca moderna, direi contemporanea, il linguaggio della radio è stato
analizzato da Umberto Eco in uno dei suoi tanti corsi di semiologia.
Carlo Emilio Gadda e il monito di Majakowskij
Del problema si interessò moltissimo Carlo Emilio Gadda . L’autore della
Cognizione del dolore e di Quer pasticciaccio brutto di via Merulana era un
ingegnere elettronico prestato alla letteratura e al giornalismo
radiofonico. Toccò a lui, agli inizi degli anni 50 come dirigente del mitico
“Terzo programma” della RAI (il programma culturale diffuso in modulazione di
frequenza) fissare alcuni principi per modernizzare il linguaggio della radio
italiana che risentiva ancora degli orpelli retorici della Eiar del ventennio.
Gadda raccomandava a tutti l’uso di periodi estremamente semplici tipo
soggetto-predicato-complemento, di non usare parole insolite o antiquate e poco
comprensibili ai più, parole proprie del linguaggio specifico delle varie
professioni, di evitare parole ed espressioni straniere quando esista il
corrispondente italiano.
Infine, una curiosità, che comunque deve far pensare. Praticamente un monito per
gli operatori della radio. Majakowskij,
dedicò un sonetto a questo
mezzo di comunicazione, per il quale scrisse in abbondanza.
Dice che la radio è una grande
invenzione, ma che c’è un’invenzione nell’invenzione, ancora più grande: quella
dell’interruttore per spegnerla quando diventa fastidiosa.