I fuori onda di un cronista d’antan
Viaggio sul filo della memoria in Ungheria dopo la caduta del muro – Dalla via
Pàl all’università di Pécs
di Giuseppe Prunai
Con l’espressione “fuori onda” si indica tutta quella serie di immagini e di
parole (giudizi, affermazioni, progetti e spunti vari) che l’intervistato mai
direbbe in trasmissione. Spesso queste registrazioni vengono utilizzate
abusivamente per discreditare questo o quel personaggio. Ma il fuori onda
comprende anche tutti quegli spunti, quelle immagini che, vuoi per motivi di
tempo o di opportunità, non vengono utilizzati nella trasmissione.
Ma tutti i giornalisti, non solo quelli della TV o della radio, hanno alle
spalle una serie più o meno consistente di fuori onda, di ricordi, di flash-back
della memoria, di elementi mai utilizzati per motivi di spazio (l’articolo non
può avere una lunghezza infinita), di opportunità (non si dice che il morto ha i
piedi sporchi), per non andare fuori tema (se si seguono le elezioni è assurdo
parlare del concerto al quale abbiamo assistito in
attesa dei risultati),
perché non siamo stati in grado di approfondire (c’è sempre un ostacolo: da un
improvviso attacco di “fancazzite” a qualche muro di gomma che lo impedisce).
Poi, anni e anni dopo, questi fuori onda tornano alla memoria, li
metabolizziamo, li voltiamo al positivo, spesso al comico. E’ una situazione che
capita soprattutto quando si incontra un collega più o meno coetaneo con il
quale, di fronte ad un buon
bicchiere di vino o di liquore, si rievocano i vecchi tempi. Che poi sono quelli
della gioventù.
-
Ti ricordi quando?….
-
E quando?....
Nel 1990, pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo del blocco
sovietico, andai a Budapest, da poco tornata alla democrazia, dove si stavano
organizzando libere elezioni: manifesti murali, affollati comizi in piazza,
capannelli di gente a discutere di politica, qualche baruffa. Insomma, scene da
Peppone e Don Camillo, scene italiane da 1948.
Ma a Budapest si svolgeva anche il Festival di Primavera al quale partecipava il
fior fiore dello spettacolo
e
della cultura europea. Maurice
Bejart (a sinistra) la faceva da padrone con il “Bolero” e i “Carmina Burana”,
con dei balletti che erano dei veri e propri quadri drammatici in cui si
fondevano fisicità ed eros che
evocavano statue e affreschi di Michelangelo e quadri di Masaccio. Il nostro
Paese schierava, invece, uno dei cori polifonici del maestro Franco Potenza,
noto soprattutto per quel suo coretto melenso che fece da contrappunto
alle canzoni del Festival di Sanremo del 1960.
A zonzo per Budapest, per la “Maria Utca”, per il Ponte delle Catene, si ha
sempre l’impressione di imbattersi in Alice Morek,
l’avventuriera bugiarda e maldestra protagonista
del romanzo di Ferenc Körmendi “Via Bodenbach”, o nell’ Anton Kàdàr di
“Un’avventura a Budapest”, altro romanzo di questo Moravia ungherese, come lo
definì un critico letterario qualche tempo fa.
Trovo, invece, Mario Pinzauti, direttore del GR3 e a capo dell’organizzazione “I
giovani incontrano l’Europa” che mi trascina in Via Pàl dove i suoi giovani
europei stanno per scoprire una lapide
commemorativa di Ferenc Molnàr (foto a destra) e dei suoi “ragazzi della via
Pàl”. Mentre si svolge la cerimonia
do un’occhiata intorno. Al monumento ai Ragazzi della Via Pàl,
al parco, probabilmente l’orto botanico di un tempo, teatro delle
battaglie tra due bande di ragazzi, le Camicie rosse di Franco Ats e i Ragazzi
di Boka, per il possesso della “Cittadella”, un terreno incolto adibito a
deposito di legname che, al termine della battaglia vinta da quelli di via Pàl,
verrà sgomberato per costruirvi sopra un palazzo. Una guerra inutile, quindi, e
da questa circostanza molti critici hanno preso spunto per definire il romanzo
di Molnàr un libro antimilitarista. Sì, c’è anche il momento in cui il
militarismo viene ridicolizzato: nell’esercito della via Pàl erano tutti
generali e c’era un unico soldato semplice, il povero Nemecsek, figlio di un
sarto, che muore di polmonite contratta dopo essersi immerso più volte nel
laghetto dell’orto botanico per spiare le mosse delle Camicie rosse. Un
sacrificio, purtroppo inutile. Ma sulla fama di antimilitarismo del libro,
personalmente ho qualche riserva. Anzi, sembra quasi esaltarlo in nome di una
retorica idea di patria e di sacrificio.
Il monumento ai Ragazzi della via Pàl
La prima edizione della “via Pàl” è del
1906 e già si faceva strada l’idea di intruppare la gioventù per
formare
– si diceva – i cittadini (e i soldati), di domani. Nel 1907, Baden Powell fondò
il movimento mondiale dello scautismo, sulla base di una personale esperienza
durante la guerra dei Boeri quando
aveva utilizzato alcuni giovani come porta-ordini e come osservatori. Lo spirito
scautista somiglia abbastanza a quello dei ragazzi descritti da Molnàr.
Forse, la tendenza ad intruppare la gioventù nasce allora anche se
la prima, vera organizzazione giovanile paramilitare nasce in Italia nel
1925. Si chiama Opera nazionale balilla.
La denominazione fu ispirata alla figura di Giovan Battista Perasso detto
"Balilla", il giovane genovese che secondo la tradizione
avrebbe dato inizio alla rivolta contro gli occupanti austriaci nel 1746:
un'immagine di modello rivoluzionario cara al regime fascista. Un anno dopo, nel
1926, nasceva in Germania la Hitlerjugend, organizzazione giovanile del partito
nazista.
Ben presto, i gerarchi fascisti si resero conto che l’Opera balilla non era
sufficiente per fascistizzare la popolazione partendo dalla più tenera infanzia
(i figli della lupa) e cominciarono a puntare anche sui più grandi, sugli
universitari e nel 1937 nacque la GIL, gioventù italiana del littorio (gli
antifascisti la definirono: gioventù incretinita lentamente) maschile, con scopi
paramilitari, e femminile per preparare le donne
fasciste del domani, che soprattutto avrebbero dovuto fare figli.
Ma la volontà di intruppare i giovani è un germe (ma ormai si può parlare di
tradizione) che viene da lontano,
di cui Molnàr è stato un inconsapevole testimone, e che non si è interrotta
con la fine della
seconda guerra mondiale. Nel nostro
Paese, nel 1946 fiorì lo scautismo, del quale si appropriarono immediatamente i
preti allo scopo di democristianizzare gli italiani fin dalla tenera infanzia. E
la cosa, purtroppo, ha funzionato per una discreta fetta di popolazione. Il boy
scout Matteo Renzi ne è uno dei tanti esempi.
Alla cerimonia di Via Pàl incontro il prof. Julius Herzog, docente universitario
emerito, italianista, autore del monumentale vocabolario ungherese-italiano e
italiano-ungherese. Lo hanno richiamato in servizio perché, mi spiega, nelle
scuole, lo studio obbligatorio della lingua russa è stato sostituito con lo
studio di quella italiana. Del
resto, gli ungheresi hanno sempre guardato con simpatia all’Italia, fin dai
tempi del Risorgimento e la nostra storia e la nostra letteratura sono
abbastanza conosciute in Ungheria. A proposito di storia, scopro che per due
anni ne è stato sospeso lo studio nelle scuole: si debbono riscrivere i libri
perché fino allora si propinavano agli studenti solo delle mistificazioni
filorusse e antioccidentali. Herzog mi propone una gita a Pécs, capitale
dell’antica Pannonia e sede di un’università nella quale è docente.
Devo mandare il servizio sulla Via Pàl a Roma, il che vuol un paio d’ore di
attesa per avere la linea tramite il centralino dell’albergo che passa ancora al
vaglio di una polizia politica ancora in piedi non si sa per fare cosa e che
continua imperterrita a fare intercettazioni che non serviranno più a nulla e a
nessuno. Un cameriere mi dà una dritta: usare le cabine pubbliche. La Telecom
Italia sta ricostruendo la rete telefonica ungherese, piuttosto antiquata e
disastrata e punta sull’allora nuovo sistema a toni anziché ad impulsi, che
consente una telefonia moderna, veloce ed efficace. Dalle cabine pubbliche,
inserendo poche monete, è possibile chiamare in teleselezione mezzo mondo. In
pochi minuti, mando il servizio a Roma e parlo con i miei che da alcuni giorni
non avevano mie notizie. Poi partiamo in auto costeggiando il lago Balaton sulle
cui acque cominciano a muoversi una sorta di bateaux-mouche attrezzati con
ristorante, casinò, night club con orchestra ed entreneuse e cabine multiuso.
La cattedrle di Pécs
A Pécs, tappa obbligata alla grande fattoria
dove si produce il vino Cabernet, che in ungherese si pronunzia cobèrnet.
Quello prodotto qui è fortissimo, il classico vino da “sotto la tavola”
perché la maggior parte dei vitigni
è in una depressione dove, in estate, si superano i 40 gradi di temperatura. E’
un vino che si accompagna benissimo a quel gran piattone di goulasch fumante,
con tanta paprika e patate lesse per contorno, che mangiamo per cena.
Nel ristorante dove siamo, entrano alcune persone ed un signore si ferma a
salutare Herzog. E’ il
presidente
della regione. Si chiama Strozzi e dice di essere un discendente degli Strozzi
di Firenze. Niente di più facile perché,
a metà 1500, gli Strozzi fuggirono da Firenze, dopo la sconfitta in un
cruento conflitto armato con Cosimo I de’ Medici. Ripararono in Francia sotto la
protezione di Caterina de’ Medici, fautrice della pacificazione nella sua antica
patria, e si distinsero, soprattutto come condottieri e diplomatici: Pietro
divenne Maresciallo di Francia e Leone svolse numerose ambascerie in Italia.
Quando nel 1564, l’Impero Ottomano minacciò da vicino Vienna (le truppe del
sultano avevano già varcato il Danubio) Filippo di Piero Strozzi corse in aiuto
dell’imperatore Massimiliano II partecipando alle battaglie in Ungheria e
contribuendo a respingere l’invasore. E circa un secolo dopo, troviamo
Pietro Strozzi che, al seguito di Raimondo Montecuccoli, si distinse nella
battaglia di San Gottardo che bloccò l’avanzata degli ottomani costringendoli
alla ritirata. I due Strozzi soggiornarono più anni in terra d’Ungheria
e non è escluso che abbiano avuto dei discendenti in omaggio
all’imperativo biblico del “crescete e moltiplicatevi”
Visito Pécs come un qualsiasi turista pilotato da Herzog, che poi mi porta a
vedere l’università, soprattutto la biblioteca dove sono conservati
volumi abbastanza rari ed alcuni manoscritti. Gli studenti del corso di
lingua e letteratura italiana attorniano il professore che mi presenta ed io mi
ritrovo in cattedra, a parlare del
giornalismo italiano, soprattutto di quello radiofonico. Poi debbo firmare il
libro dei visitatori che più che un libro è un registro modello kgb. Nome e
cognome, paternità, maternità, luogo e data di nascita, luogo di residenza,
motivo della visita. Con pazienza comincio a riempire la pagina. Arrivato al
luogo di nascita scrivo Siena perché è lì che ho visto la luce. La ragazza che
mi ha porto il libro e che legge alla rovescia la mia grafia ha un sussulto e
rompe in un’esclamazione che non mi sarei mai aspettato in quella parte di
mondo:
-
Allora si va a béve una hoha hola con la hannuccia!
L’anno prima, aveva frequentato a Siena l’università per stranieri.