A cento anni dalla Grande Guerra

28 giugno 1914

Due colpi di pistola a Sarajevo

cambiarono il corso della storia

La dinamica dell’attentato degli irredentisti serbi – La diplomazia europea al lavoro – Lo scoppio della guerra che coinvolse l’Europa e il mondo – L’iniziale neutralità italiana – I cambiamenti indotti dalla guerra

 

di Giuseppe Prunai

 

 

 

 

L’attentato

Una leggenda salisburghese vaticina la morte entro un anno per chi uccida un camoscio albino. Per sfuggire al destino, dice ancora la leggenda, ci si deve far cucire una camicia addosso.

Francesco Ferdinando d’Asburgo (foto a sinistra), a caccia nei dintorni di Salisburgo, aveva ucciso un esemplare di questa specie d’animale e – secondo una voce popolare, non suffragata da alcuna fonte – si sarebbe fatto cucire addosso la camicia. Circostanza che – dice ancora la voce popolare -  avrebbe ritardato l’intervento del medico dopo che l’erede al trono di Austria-Ungheria era stato colpito, in una strada di Sarajevo, in Serbia, dai proiettili di pistola sparatigli contro dallo studente serbo Gavrilo Princip, membro della Mlada Bosna (Giovane Bosnia) un gruppo politico che mirava all’unificazione di tutti gli jugoslavi, gli slavi del sud.

Gli irredentisti di Mlada Bosna avevano da tempo progettato l’assassinio dell’arciduca ed entrarono in azione il 28 giugno 1914, giorno di San Vito, Vidovdan, festa nazionale serba.

Il corteo di auto scoperte (l’arciduca e la moglie erano nella terza auto) percorse la vie principali della città. Alle 10.15, il corteo passò dinanzi al primo membro del gruppi di cospiratori.  Mehmed Mehmedbašiç, era appostato ad una finestra, ma non riuscì a sparare perché il bersaglio non era libero. Il secondo cospiratore, Nedeljko Cabrinovic, lanciò una bomba  (o un candelotto di dinamite) contro l’auto dell’erede al trono ma la mancò. L’esplosione distrusse l’auto che seguiva ferendo gravemente i suoi occupanti e diverse persone che assistevano al passaggio del corteo, che accelerò la marcia dirigendosi verso il municipio. La cerimonia di benvenuto si svolse in tono minore. Francesco Ferdinando interruppe il saluto del sindaco e l’apostrofò duramente: “Veniamo a farvi visita e ci tirate le bombe”.

L'auto scoperta sulla quale viaggiavano Francesco Ferdinando e sua moglie

 

Esauriti in fretta  i convenevoli, Francesco Ferdinando espresse il desiderio di recarsi in ospedale a visitare le vittime, ma l’autista sbagliò strada e l’auto incrociò uno dei membri del gruppo, Gavrilo Princip (foto a sin istra), che , ritenendo ormai tutto finito, si era recato in un negozio di alimentari per acquistare un panino. Princip si trovò a due passi dall’auto dell’erede al trono. Estrasse la pistola e sparò due volte. Il primo proiettile colpì la moglie dell’arciduca, Sophie Chotek von Chotkwa, all’addome; il secondo penetrò nel collo di Francesco Ferdinando, non protetto dal giubbotto antiproiettile. L’arciduca e sua moglie spirarono mentre venivano trasportati alla residenza del governatore per i soccorsi.

Prima di morire, Francesco Ferdinando ebbe il fiato di rivolgersi alla moglie (foto a destra): “Sopher! Sterbe nicht! Bleibe am Leben für unserere Kinder! Sofia cara, non morire! Resta in vita per i nostri figli!”

I congiurati furono tutti arrestati, furono processati e condannati, alcuni a morte, altri a pene detentive, ma nessuno parlò dei reali mandanti del duplice assassinio.

Francesco Ferdinando, figlio del fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe, era stato designato erede al trono dopo la morte di Rodolfo d’Asburgo nella cosiddetta tragedia di Mayerling (leggi in proposito “Suicidio di Stato?” di Magali Prunai in https://www.il-galileo.eu/n24/magali.html   ).

Rodolfo, inviso al padre, era di idee progressiste, aveva in mente di trasformare l’impero in una federazione. Si dice anche che avesse idee repubblicane. Frequentava circoli socialisti e pubblicava a sua spese, in Bavera, anonimi libelli contro l’imperatore e le monarchie assolute. Poi conviveva con una ragazza di rango inferiore, Maria Vetsera. Sull’impiegabile morte di Rodolfo e della Vetsera si fecero ridde di ipotesi imputandola a motivi passionali (omicidio-suicidio) o al gesto di un folle. Ma più precise e recenti ricostruzioni evocano l’ombra dei servizi segreti di un qualche paese contrario ad evoluzioni progressiste nella politica di Vienna e interessato al mantenimento dello status quo.

Riconsiderando anche l’assassinio di Francesco Ferdinando alla luce dell’esperienza dettata da un secolo di storia, si sente puzza di servizi. L’erede al trono d’Austria-Ungheria era, a suo modo, un progressista. Anche lui propendeva per una federazione di stati, di tanti piccoli regni a capo dei quali, forse, avrebbe voluto mettere i figli o comunque dei suoi congiunti, ed era dell’idea di allentare il giogo austriaco su numerose province.

Anche lui era inviso a Francesco Giuseppe (foto a sinistyra) per le sue idee moderne, ma soprattutto per la relazione con la contessa Sophie Chotek von Chotkwa, nobile di rango inferiore, con cui Francesco Ferdinando fu autorizzato ad unirsi in matrimonio morganatico dopo che ebbe giurato che non avrebbe mai tentato di far salire sul trono di Vienna i propri figli.

Scrive di lui Leo Valiani:

« Fra i progetti di Francesco Ferdinando, principe di mentalità assolutistica, ma dotato di una non trascurabile capacità intellettuale e d'indubbia serietà morale, figurava [...] la volontà di risaldare la compagine dello Stato e di consolidare l'autorità e la popolarità della Corona, con l'equiparazione effettiva di tutte le nazionalità dell'Impero, e dunque, con la smobilitazione della supremazia se non dei tedeschi, certamente di quella, assai più pesante, dei magiari, sulle nazionalità slave e romena che nel 1848-49 avevano salvato la dinastia, opponendosi con le armi alla rivoluzione ungherese.[...] Francesco Ferdinando nel 1895 e nel 1913, con una sostanza rimarchevole dati i mutamenti del ventennio intercorso, [disse] che l'introduzione del dualismo, nel 1867, era stata una catastrofe, e che, ascendendo al trono, egli intendeva ripristinare un forte potere centrale unitario, ma lo riteneva possibile solo con la contemporanea concessione di larghe autonomie amministrative a tutte le nazionalità della monarchia. Anche al ministro degli Esteri, Berchtold, Francesco Ferdinando ripeté così con una lettera del 1º febbraio 1913, con cui spiegare perché non riteneva opportuna la guerra con la Serbia, che 'l'irredentismo da noi, nel paese [...] cesserà immediatamente, se si procura ai nostri slavi un'esistenza confortevole, giusta e buona, invece di calpestarli, come i magiari facevano. Ben perciò, tracciando il profilo dieci anni dopo la sua morte, Berchtold scriveva che l'arciduca avrebbe cercato, una volta fosse salito sul trono, di sostituire al dualismo il federalismo supernazionale. »

 

Circostanze che fanno pensare male. E quando si pensa male – diceva un politico italiano piuttosto cinico – si fa peccato, ma ci s’azzecca!

 

L'arresto degli attentatori

 

 

Le  conseguenze

Superati lo stupore, la rabbia, il dolore per le due vittime di Sarajevo, il mese successivo fu un luglio rovente, con le diplomazie di tutti gli stati, europei ed extraeuropei al lavoro chi per scongiurare una guerra, di cui si intuivano le dimensioni planetarie, chi per provocarla per ottenerne vantaggi economici, per regolare vecchi conti o alla ricerca di vantaggi territoriali e di sbocchi sul Mediterraneo.

Verificata l’alleanza militare con la Germania, persuaso lo scettico conte Tiza, primo ministro ungherese, l’imperatore d’Austria, Francesco Giuseppe, fece la voce grossa con la Serbia inviando il cosiddetto ultimatum (23 luglio). La lettera di Vienna al governo serbo ricordava l’impegno a rispettare la decisione delle grandi potenze circa la Bosnia-Erzegovina e a mantenere rapporti di buon vicinato con l’Austria-Ungheria. La missiva conteneva anche richieste specifiche che miravano a distruggere il finanziamento e il funzionamento delle organizzazioni ritenute terroristiche. In pratica, Vienna chiedeva a Belgrado a rinunciare a qualsiasi atteggiamento  di panslavismo. La Serbia aveva 48 ore di tempo per accettare o respingere l’ultimatum,  altrimenti Vienna avrebbe rotto le relazioni diplomatiche. Assicuratosi il sostegno della Russia, il 25 luglio Belgrado accettò alcune clausole dell’ultimatum, ma rispose in maniera evasiva ad altre. Il 28 luglio, l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia e il giorno successivo, l’esercito austro-ungarico cannoneggiò Belgrado mentre la Russia ordinò la mobilitazione nei distretti meridionale al confine con l’Austria-Ungheria. Il 30 luglio, la Germania, alla cui guida era il kaiser Guglielmo II, dichiarò lo “stato di pericolo di guerra” mentre contestualmente la Russia ordinava la mobilitazione generale. Il 31 luglio il governo tedesco inviò ultimatum alla Russia, retta dallo zar Nicola II, e alla Francia, presieduta da Raymond Poincaré.  Il primo agosto apparve ormai inevitabile l’allargamento a macchia d’olio del conflitto: Germania e Francia ordinarono la mobilitazione generale, la Germania dichiarò guerra alla Russia. Il 2 agosto, le truppe tedesche occuparono il Lussemburgo mentre la Germania strinse un’alleanza segreta con l’Impero Ottomano. Il 3 agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia mentre l’Italia proclamò la propria neutralità.

Il 4 agosto, la Germania dichiarò guerra al Belgio e lo invase mentre l’Inghilterra dichiarò guerra alla Germania.

Ormai era una strada in discesa verso un conflitto generale. Il 5 agosto, il Regno del Montenegro dichiarò guerra all’Austria-Ungheria mentre quest’ultima dichiarò guerra alla Russia e la Serbia alla Germania. Il 9 agosto è ancora il Montenegro a dichiarare guerra alla Germania, mentre la Francia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria seguita a ruota (12 agosto) dal Regno Unito. Il 22 agosto, l’Austria-Ungheria  dichiarò  guerra al Belgio

Se luglio era stato il mese rovente per le cancellerie e le diplomazie di mezzo mondo, agosto lo fu per gli stati maggiori già da un mese in subbuglio: ufficiali e ufficialetti, con le loro divise da operetta, tesserono le trame più incredibili per guadagnare consensi al partito della guerra, cercando – se mai ve ne fosse stato bisogno – di forzare la mano alle rispettive cancellerie.  Finalmente, il loro desiderio di assurgere alla “gloria militar”, come canta Figaro nell’opera di Mozart, è esaudito. Strateghi e tattici (ma molti somigliano ai commissari tecnici degli odierni Bar Sport) sono al lavoro, inseguendo l’irreale mito della guerra lampo: elaborano piani su piani, spesso fallimentari, che si concludono nel sangue. Ovviamente, non il loro, che fanno la guerra al tavolino. Ormai è guerra che si concluderà cinque anni dopo con un bilancio di vittime militari e civili  tra i 15 e i 17 milioni   di morti, 20 milioni di feriti, mutilati e invalidi, sia militari che civili.

Scrive Emil Ludwig nella presentazione del suo “Luglio ‘14”, magistrale ricostruzione tanto degli avvenimenti che delle trame palesi ed oscure della diplomazia internazionale:

“A ripensarci, quello fu davvero il mese più  intensamente drammatico del nostro secolo. Quelle settimane che corsero tra l'assassinio dell'Arciduca Francesco Ferdinando e le dichiarazioni di guerra delle massime potenze d'Europa, furono una tale preparazione di avvenimenti straordinari, di decisioni enormi, di mutamenti radicali, che si potrebbero rassomigliare all'inizio di una tempesta cosmica, entro la quale, tra fiamme e nembi, si celi il mistero d'una nuova età della terra. Fu davvero uno di quei momenti della storia universale, in cui pare che tutte le forze che muovono l'umanità - potenze materiali e potenze spirituali, volontà consapevoli e istinti oscuri, azioni di singoli e azioni di masse e, in mezzo a tutto, l'arcano imponderabile del destino - confluiscano, s'avviluppino e precipitino in una crisi storica, di quelle che a distanza di secoli segnano le tappe del nostro travagliato cammino.”

 

Luglio 14: una metatesi di posizione lo trasforma in  14 luglio, data simbolo della rivoluzione francese, un altro avvenimento che alterò realmente il corso della storia, che determinò numerosi cambiamenti e stravolgimenti, che fu l’inizio dell’era moderna.  Come la rivoluzione francese, anche la Grande Guerra, la Guerra europea, la Prima guerra mondiale fu un avvenimento di svolta nella geografia dei popoli, nella politica, nell’economia, nel costume. Se il 14 luglio sancì la fine dell’ancien régime e fu la primissima pietra della democrazia, il luglio ’14 fu la fine della belle époque, un periodo di diffuso benessere nato all’indomani della guerra franco-prussiana (1870 - 71),  e l’inizio di un periodo tormentato che, in Europa, si concluse nel 1945. Fra gli effetti immediati della guerra, la Rivoluzione russa (1917) che portò all’instaurazione al regime dittatoriale di Lenin (foto a sinistra) e, successivamente, di Stalin (foto a destra). Poi, la pasticciata Pace di Versailles (1919), il Trattato di Sèvres (1920)  e la crisi economica dovuta alle ingenti spese militari aprirono la porta alle dittature di Hitler e Mussolini, a quelle nella penisola iberica, alla nascita di rivendicazioni territoriali, di teorie sullo spazio vitale, in pratica, alla seconda guerra mondiale.

 

La neutralità italiana

Fino al luglio 1914, l’Italia, su cui regnava Vittorio Emanuele III di Savoia, era legata ad Austria e Germania dal cosiddetto trattato della Triplice Alleanza, un patto difensivo che prevedeva aiuto in caso di attacco ad uno dei partner, consultazioni fra i tre governi sulle misure adottate, compensi in caso di accrescimenti territoriali di uno dei paesi in guerra. Ma il trattato non venne rispettato da Vienna, diretta interessata, che esclusa Roma da qualsiasi trattativa, si limitò ad informare e consultare Berlino sui passi da compiere. E spesso lo fece a cose fatte, provocando l’ irritazione del Kaiser. I diplomatici italiani che cercarono di richiamare i partner sulle clausole del trattato ebbero risposte risibili e proposizioni piuttosto evasive sulla questione dei compensi. Si parlò di cedere all’Italia Valona, forse l’Albania ma l’offerta venne declinata perché Roma non era interessata ad un’espansione ad oriente, mentre desiderava fortemente annettersi le province italiane ancora sotto il gioco austriaco: il Trentino e l’Alto Adige, il Friuli e la Venezia Giulia. Ma da quest’orecchio l’Austria non sentiva.

La notizia dell’attentato di Sarajevo arrivò in modo abbastanza curioso all’allora presidente del consiglio, Antonio Salandra.

Il 28 giugno 1914 cadeva di domenica e Salandra (fono a sinistra) approfittava del pomeriggio domenicale, con gli uffici della Presidenza deserti e silenziosi, per sbrigare alcune faccende e preparare il programma della settimana quando squillò il telefono della linea riservata che collegava la Presidenza con i vari ministeri e con il Quirinale. Era il ministro degli esteri, Antonino Paternò-Castello, sesto marchese di San Giuliano (foto a destra).

-Sei tu Salandra? Sono San Giuliano. Volevo avvertirti che ci siamo liberati dell’impiccio di Villa d’ Este….

Per una complicata storia di eredità, Francesco Ferdinando d’Austria era proprietario della Villa d’Este di Tivoli. Lo stato italiano avrebbe voluto acquistarla poiché il proprietario la stava mandando in rovina con tutte le opere d’arte che conteneva. Ma la trattativa segnava il passo per la  venalità e la taccagneria dell’arciduca che, non possedendo un buon patrimonio, cercava di far cassa in ogni modo. Al di là del problema della villa, il quadro apparve subito nella sua drammaticità. Rispettare il trattato della Triplice, nel quale l’Italia era stata trascinata obtorto collo, una trentina di anni prima, praticamente dopo la sfortunata terza guerra d’indipendenza, voleva dire entrare in guerra a fianco di Austria e Germania, contro Francia e Inghilterra e, inevitabilmente, contro la Russia. Al di là della sproporzione degli schieramenti, sarebbe stato difficile far digerire una cobelligeranza con Vienna ad un’opinione pubblica in cui il sentimento risorgimentale ed antiaustriaco era ancora vivo, come era impensabile schierarsi immediatamente contro la Triplice.

Intanto la macchina diplomatica degli stati europei si era mesa in moto seguita, a ruota, dagli stati maggiori che si preparavano alla guerra. Tutti i contatti e le iniziative di Vienna e Berlino ignorarono bellamente Roma e il 3 agosto mentre fioccavano le dichiarazioni di guerra e cominciavano le operazioni sul campo, l’Italia proclamò la propria neutralità. (Nella foto a sinistra, Vittorio Emanuele III, Re d'0Italia; a destra, il Kaiser di Germania Guglielmop II)

La notizia fu accolta con indifferenza e senza sorpresa a Vienna, mentre a Berlino suscitò irritazione  e preoccupazione tanto che fu fatto un tentativo in extremis di riportare Roma nella Triplice, ma ogni trattativa si arenò quando si affrontò il discorso dei compensi territoriali.

Di segno del tutto opposto le reazioni a Parigi e a Londra dove si svolsero manifestazioni di simpatia dinanzi alle nostre ambasciate con  la partecipazione di numerosi uomini politici. Un’Italia neutrale, non avrebbe costretto gli alleati, in particolare modo la Francia, a non tenere impegnate alcune divisioni sulla frontiera meridionale che avrebbero potuto essere più utilmente impiegate sulla Marna dove si combatterono fra le più sanguinose battaglie della Grande Guerra. (Foto a sinistra, il presidente francese Poincaré).

Ma la neutralità italiana durò poco più di nove mesi e si concluse il 24 maggio 1915 con la dichiarazione di guerra agli imperi centrali.

 

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Bibliografia essenziale:

Emil Ludwig: Luglio ‘14

Antonio Salandra: La neutralità italiana

Antonio Salandra: L’intervento

Leo Valiani: La dissoluzione dell’Austria-Ungheria

Luigi Salvatorelli: Storia del ‘900

Luigi Albertini: Origins of the War of 1914, Oxford University Press, London, 1953

Luciano Magrini, Il Dramma Di Seraievo. Origini e responsabilità della guerra europea

Federico Chabod: Storia dell’idea d’Europa

Federico Chabod: L’idea di nazione

AAVV: enciclopedia Treccani

AAVV: Enciclopedia Rizzoli Larousse

AAVV: Wikipedia

 

 

 Il Galileo