Un delitto che puzza di petrolio

 

di Giuseppe Prunai

 

 

Il principale responsabile dell’assassinio di Matteotti fu la spia fascista Amerigo Dumini, anche se, a quanto risulterebbe, non ne fu l’esecutore materiale.

Dumini faceva parte della Ceka fascista, la polizia segreta del partito, istituita sul modello della polizia segreta di Stalin. Fautore e fondatore della "Ceka fascista" o "Ceka del Viminale", se non su ordine, perlomeno con l'assenso e il tacito appoggio di Mussolini,  fu Giovanni Marinelli, un gerarca della prima ora, membro del Gran Consiglio del Fascismo, che poi fu fucilato a Verona per aver votato a favore all'Ordine del giorno Grandi. Fra parentesi, dopo il delitto Matteotti, la Ceka fu incorporata nell’ OVRA (Opera Volontaria per la Repressione dell'Antifascismo).

A capo c’era il Dumini, personaggio estremamente complesso e controverso. Dopo aver lavorato come spia in Francia, a caccia di esuli antifascisti (in molti furono uccisi dopo che Dumini li aveva identificati), fu messo a capo di questa squadra di criminali. La Ceka fascista non fu, comunque, una struttura sofisticata e professionale ma poco più che una squadraccia di "bravi" di regime, che si resero protagonisti di violenze di basso livello, fino ad incappare, forse per eccesso di zelo, approssimazione e gratuita brutalità in quello che fu eufemisticamente definito l’ "incidente" Matteotti, che rischiò di travolgere Mussolini.

 

La scintilla che scatenò la Ceka nella caccia a Matteotti sarebbe stato lo stesso Mussolini.  Profondamente irritato dal discorso del deputato socialista  alla Camera, avrebbe esclamato: "Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell'uomo (Matteotti N.d.R.) dopo quel discorso non dovrebbe più circolare... ".  (nella foto sotto, a destra, la spia fascista Amerigo Dumini; sopra a sinistra, la copertina del suo libro autoassolutorio).

Questa la dinamica dell’assassinio, avvenuto sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, secondo il racconto di Dumini, nel suo libro “17 Colpi”[1]:

“«Ecco Matteotti », qualcuno sussurrò al mio orecchio. Guardai. Avevo avuto occasione di vederlo il deputato socialista forse un paio di volte in tutto e nella confusione del momento non lo ravvisai nell'uomo che, senza cappello e tenendo le mani in tasca, si avvicinava sul marciapiede dal lato opposto della strada. Non aveva nessuna borsa sotto il braccio, poiché, come sapemmo dopo, egli si recava allo chalet dei bagni, a circa un centinaio di metri di distanza.

“I miei compagni, meno il Viola, si precipitarono a terra. Io ero rimasto al mio posto, inchiodato al volante, e mi pareva di essere diventato di sasso. Ormai gli avvenimenti si svolgevano al di fuori della mia volontà. Viola e Poveromo restarono presso la macchina, e credo che il primo, appoggiato al parafango, con le mani sul ventre, fosse assolutamente inconscio di quanto avveniva. Il Poveromo si trovava di fianco allo sportello, che era rimasto aperto. Volpi e Malacria, intanto, avevano attraversato di corsa la strada e tenevano Matteotti per le braccia. Non vidi chi lo colpì al basso ventre, ma fu certo colpito, perché ad un dato momento vidi Matteotti piegarsi in due. “Continuò, tuttavia, a difendersi e a resistere allo sforzo dei due che cercavano di fargli attraversare la strada.

“Quando i miei compagni vennero verso la macchina, con Matteotti, in parte trascinandolo e in parte sollevandolo di peso, non ero ancora uscito da quella specie di intontimento che mi aveva colpito fin dal primo istante. Tutto si era svolto così vertiginosamente da rendermi incapace di prendere una decisione qualsiasi. Quando sentii chiudere gli sportelli ed una voce apostrofarmi: «Cosa aspetti, stupido, a partire?» Fui richiamato alla realtà. Il motore, sotto la sollecitazione dell'acceleratore mai abbandonato, aumentò il suo ansito. Ingranai la seconda, la terza e la quarta con una successione meccanica di movimenti, senza una precisa volontà.

“Accanto a me non c'era nessuno. Nella macchina, intanto, tutto era sconvolgimento e confusione. Lo specchietto retrovisivo non mi serviva, poiché la schiena di qualcuno dei miei compagni mi nascondeva quanto accadeva.

“Il Panseri, che era rimasto in piedi sulla pedana destra o sinistra, dopo una cinquantina di metri saltò a terra. lo proseguivo oltrepassando il piazzale Flaminio. Avevo percorso forse un centinaio di metri oltre il piazzale, quando mi sentii gridare: «Ferma, ferma ». Ebbi ancora abbastanza calma per oltrepassare un tram e passare sulla destra della strada, prima di fermarmi. Non so chi fu a dirmi che Matteotti stava male. Scesi ed aprii lo sportello. Il deputato socialista giaceva riverso sul sedile posteriore e buttava sangue dalla bocca. Che fare?

“Lo smarrimento si stava impadronendo di tutti, sentii una gran voglia di vomitare. Cercai con lo sguardo una fontana per prendere un po' d'acqua e rianimare il poveretto che ormai non dava più segni di vita. Forse fu Malacria che disse: « Non c'è più niente da fare. È morto ». “

 

Un racconto che sembra addomesticato, un’autodifesa a metà difficilmente confutabile perché tutto si svolse senza testimoni o senza che nessuno si facesse avanti a testimoniare. Ciò che sorprende è che non c’è una parola di pentimento né recriminazione se veramente, come fa intendere Dumini, gli eventi gli sfuggirono di mano portando ad una tragica conclusione.  Un racconto che fu ripetuto al processo. Dumini e soci vennero arrestati nel successivo luglio. Furono accusati di omicidio ma l’istruttoria  del processo passò da un giudice all’altro, fin quando non se ne trovò uno piuttosto  morbido. Il processo fu celebrato a Chieti, probabilmente per legittima suspicione,  nel marzo 1926 e si concluse con la condanna di tutti gli imputati a soli 6 anni di reclusione. Dumini fu difeso da Roberto Farinacci. (Qui sopra, la Lancia Lambda con la quale fu rapito il deputato socialista)

Processato nuovamente dopo la guerra dinanzi alla Corte d’assise di Roma, il 4 aprile 1947, fu condannato all’ergastolo. Rimase in carcere fino al dicembre 1953 quando, usufruendo di un condono politico, fu rimesso in libertà.

Dalla lettura del libro si ricava l’immagine di un personaggio enigmatico e controverso. Decorato di più medaglie nella guerra 15-18, era stato fascista e squadrista della prima ora e non lo ha mai negato. Come non ha mai negato di avere architettato quel rapimento di cui non dice mai quali fossero le finalità: la soppressione di Matteotti o un pestaggio esemplare?

Scrive la spia nella presentazione del suo diario:

“Nel delitto Matteotti non ci fu niente di misterioso. Ma intorno ad esso sì. Non sembri questa una distinzione capziosa o assurda. I colpevoli del delitto Matteotti sono stati sei: Marinelli, io, Volpi, Malacia, Poveromo e Viola. Intorno al delitto hanno poi gravitato stranamente una quantità di personaggi che non vi avevano niente a che fare: De Bono, Finzi, Filippelli, Rossi, Naldi, Giunta, per citare le più note personalità, e poi un'altra ventina di ignoti. Come si sa, i memoriali pullularono come funghi. Tutti vollero dire la loro, portando un valido contributo ad imbrogliare le acque e ad aumentare la confusione. Rossi, Finzi, De Bono, Filippelli, Purato, ognuno volle scrivere il proprio memoriale. E con quale scopo? Alcuni per difesa preventiva, altri, come il Rossi, per il risentimento di essere stati defenestrati da una carica importante; Finzi, De Bono e Filippelli lo scrissero per motivi ricattatori; Putato per difendersi”.

Ovviamente, nessuna delle persone chiamate in causa poté mai replicare perché tutte morte. E’ chiaro che dopo il delitto, il regime abbia tentato di scaricarlo. Anzi, stupisce che sia sopravvissuto, visti i metodi spicci di quei tempi. E’ chiaro anche che Dumini era uno dei tanti bracci armati del partito fascista che facevano capo a più menti spesso in concorrenza fra di loro. Insomma, una gara a chi era più bravo, il più degno e il più fedele al Duce. (nella foto sopra, a destra, il monumento a Mtteotti, alla macchia della Quartarella. vicino a Riano Flaminio).

Dumini fu scaricato, ma non del tutto. Quando uscì dal carcere (dopo la condanna di Chieti) fu spedito in Libia. Allora era prassi inviare nelle colonie personaggi fastidiosi che tuttavia non si voleva emarginare del tutto, probabilmente perché erano a conoscenza di qualcosa che doveva essere divulgato. Ufficialmente, Dumini doveva sovrintendere all’approvvigionamento idrico della Cirenaica, in realtà doveva impiantare una rete spionistica che faceva capo ad alcune trasmittenti clandestine direttamente in collegamento con Roma. Dopo l’invasione degli alleati, fu catturato e condannato a morte, Fu fucilato dagli inglesi. Raggiunto da 17 proiettili di fucile, rimase a terra con altri cadaveri. Lo ritennero morto e non gli fu dato il colpo di grazia. Fu poi raccolto da alcuni suoi amici berberi che lo curarono. Riuscì a rientrare in Italia e, dopo l’8 settembre, lo troviamo a Milano dedito al commercio di armi per conto delle forze armate della Repubblica sociale. Dopo il 25 aprile, fu nuovamente arrestato e processato, come già detto.

Ma Mussolini (foto sotto) fu l’unico mandante dell’omicidio? Il figlio di Giacomo Matteotti, Matteo, dopo avere sempre sostenuto l’intenzionalità dell’uccisione del padre, affermò che nell’episodio sarebbero stati coinvolti ambienti della Corona, forse lo stesso Vittorio Emanuele III (foto a destra), nonché alcuni uomini più in vista del regime fascista. Secondo le accuse di Matteo Matteotti, il re sarebbe divenuto azionista della compagnia petrolifera americana Sinclair Oil Corporation a titolo di tangente in cambio – sembra - del divieto per un ente petrolifero italiano d’ intraprendere trivellazioni nel deserto libico.

In pochi, in quel periodo, erano a conoscenza dei giacimenti petroliferi nel sottosuolo libico ed è chiaro che quei pochi cercavano di monetizzarli al meglio. 

A questo punto, torna alla mente quanto raccontò il geologo Ardito Desio, intervistato da Pippo Baudo in una popolare trasmissione di Raiuno. Inviato in Libia, negli anni 20, a cercare giacimenti sotterranei di acqua, trovò, invece, il petrolio. Riempì un contenitore di greggio e si precipitò a Roma, al ministero dell’industria, sbandierando la sua scoperta. Gli fu risposto che lui era stato inviato in Libia per cercare l’acqua. Come si era permesso di trovare il petrolio? Probabilmente, qualcuno, molto in alto,  non voleva che la notizia si diffondesse in Italia per avere mano libera nei maneggi per le concessioni. (nella foto a sinistra, Matteo Matteotti; a destra, il geologo Ardito Desio, intervistato dal direttore de Il Galileo)

Giacomo Matteotti aveva preannunciato un dossier sugli scandali di cui erano protagonisti gli uomini di Mussolini. Fece capire di avere in mano le prove della corruzione nell’affare Sinclair.

All’indomani dell’assassinio del deputato socialista, molti giornali inglesi posero l’accento sulla pista della corruzione e del petrolio. 

[1]  Amerigo Dumini: “17 Colpi”, Editore Longanesi & C.. 1966

 

 Il Galileo